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Al Qaeda è un’invenzione di comodo

Creato il 11 marzo 2011 da Coriintempesta

Presentiamo un’articolo di Franco Cardini,”Al Qaeda è un’invenzione di comodo”,comparso su Il Tempo l’08/03/2011

Gentile direttore a proposito dell’articolo del professor Cardini sugli avvenimenti che sconvolgono il Nordafrica, tra le tesi sostenute vi è quella dell’inesistenza di Al Qaeda, un’invenzione occidentale che servirebbe ad infangare il buon nome del fanatismo islamista e, per una spericolata proprietà transitiva, quello di ogni buon musulmano. Cardini arriva a paragonare la letteratura sul terrorismo islamico al falso storico e antisemita «i protocolli dei savi anziani di Sion», che costò agli ebrei russi ed europei decenni di persecuzioni, e dunque sarebbero i musulmani ad essere infamati e perseguitati, non cristiani ed ebrei. Tralascio il giudizio sui Fratelli musulmani che sarebbero una forza politica “equilibrata” (mentre al Cairo Qaradawi arringa la folla sulla futura riconquista di Gerusalemme). Cardini si avventura poi su una distinzione tra nostra e la loro democrazia, dove non si capisce cosa voglia dire visto che la democrazia è una prassi e che essa ha riscosso un discreto successo anche in terra islamica (Filippine, Turchia, Libano e persino Iraq), almeno laddove è comparso un certo pluralismo politico, quello assente in Libia, Tunisia ed Egitto, dove in caso di “libere elezioni” vincerebbero i gruppi musulmani, ma proprio perché non esistono forze politiche alternative, mentre i primi hanno avuto decenni per organizzarsi e creare strutture sociali parallele a quelle statali. Dunque la sperequazione economica c’entra poco (Libia e Arabia Saudita hanno redditi procapite più alti di alcuni Stati Ue), c’entra invece l’assenza di libertà di pensiero, la piattaforma indispensabile perché fiorisca una democrazia. Ennio Emanuele Piano

Lo storico Franco Cardini sfata il pericolo integralismo islamico nel Maghreb.

«Tra le tesi sostenute vi è quella dell’inesistenza di Al Qaeda, una invenzione occidentale, secondo il professore, che servirebbe ad infangare il buon nome del fanatismo islamista e per una spericolata proprietà transitiva quello di ogni buon musulmano». Nessuna invenzione, bensì pura adesione ai fatti obiettivi.Il termine al-Qaeda, «la base», cominciò a venir usato negli Anni Novanta per indicare alcuni gruppi terroristi. Sulla scorta poi di alcuni equivoci e di una buona dose di manipolazioni – delle quali sono responsabili anzitutto i «servizi» statunitensi – si andò creando l’immagine di una sorta di organizzazione centralizzata, piramidale, gerarchica, con i suoi programmi e i suoi quadri dirigenziali. All’equivoco alimentato dai servizi si aggiunsero anche quelli voluti da molti degli stessi gruppi terroristici, che cominciarono ad arrogarsi l’etichetta «fortunata» e a rivendicare nel suo nome attentati e azioni vari. La costruzione della mitologia alquaedista serviva e serve agli «opposti estremi»: ai servizi e ai settori dell’opinione pubblica legata agli ambienti oltranzisti, che intendono così giustificare misure repressive e spese del pubblico denaro; e agli ambienti terroristici – in perenne lotta tra loro, e discordi su quasi tutto in una fitna infinita – che intendono così guadagnare credito e rendere più temibile, con tale mossa propagandistica, la loro azione.Al Qaeda è un’invenzione di comodo Ciò fu già denunziato fino dal 12 gennaio 2003 in un articolo di Jason Burke uscito sull’«Observer», mentre il 19 luglio 2008 Marc Sageman – figlio di un sopravvissuto all’Olocausto e tra i principali esperti del City Police Department di New York – si esprimeva in termini analoghi in un’intervista raccolta da Christopher Dickey su «Newsweek». L’opinione che al-Qaeda, come organizzazione coerente, non esista, è stata sostenuta con forti argomenti da Adam Curtis in un documentario che il 18 gennaio 2005 fu diffuso dalla BBC (cfr.news.bbc.co.uk/2/hs/programmes/3755686.stm).

A tutt’oggi, nonostante le ripetute notizie sulla cattura o l’uccisione di leaders di al-Qaeda, nessuno ha mai fornito notizie e prove obiettive a proposito dell’organizzazione, dei suoi strumenti, delle sue sedi, del suo apparato. Che credere nella sua esistenza serva ai nostalgici di G.W.Bush jr. e agli orfanelli dell’ingegner Bin Laden, non prova nulla. Il signor Piano mi attribuisce poi intenzioni apologetiche nei confronti del «fanatismo islamista» che non mi appartengono e che non sono congrue nemmeno con le sue stesse argomentazioni. Rimando comunque, su ciò, agli autori più qualificati: Gilles Kepel, François Brugat, Olivier Roy, che ricostruiscono la complessità di questo genere di argomenti. 2. «Cardini arriva a paragonare la letteratura sul terrorismo islamico al falso storico e antisemita I protocolli dei savi anziani di Sion che costò agli ebrei russi ed europei decenni di persecuzioni, e dunque sarebbero i musulmani ad essere infamati e perseguitati, non cristiani ed ebrei». In realtà, il paragone – che trova una sua «attualità» nel successo del romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga – non riguarda affatto la letteratura sul terrorismo islamico nel suo complesso, ma soltanto la manovra mediatica che è stata appunto costruita attorno ai pochi, incerti e confusi dati disponibili su al-Qaeda per farne appunto un oggetto adatto all’innesco di un “caso” utile a costruire un altro episodio dell’ormai celebre “teoria del complotto”. L’illazione che con questo io vorrei far passare i musulmani, nel loro complesso, come perseguitati, è – come quella di cui al punto 1 – gratuita e incoerente con il contesto nel quale si muovono le stesse argomentazioni del signor Piano. 3. «Tralascio il giudizio sui Fratelli musulmani che sarebbero una forza politica “equilibrata” (mentre al Cairo Qaradawi arringa la folla sulla futura riconquista di Gerusalemme)». No, guardi, signor Piano, vediamo di non tralasciare proprio niente.

Anzitutto, Qarawadi non è un «Fratello Musulmano», per quanto in passato abbia aderito, da giovane, a tale organizzazione. Oggi è un pensatore indipendente che, giovandosi del suo prestigio religioso, emette delle fatwa che non sono però vincolanti per nessuno. Egli appartiene comunque alla wasatiyya, una corrente di pensiero islamista moderato (su cui il riferimento più autorevole è R. Baker, Islam without fear. Egypt and the new islamists, Harvard University Press, 2003. Che i «Fratelli Musulmani» abbiano avuto e abbiano una posizione moderata, incline al confronto con le istituzioni e all’accettazione dei metodi della democrazia rappresentativa è cosa ampiamente trattata e dimostrata da H. al-Awadi, In pursuit of legitimacy. The Muslim Brothers and Mubarak, London-New York, Tauris, 2004, quindi da B. Rutherford, Egypt after Mubarak, Princeton University Press, 2008, e recentissimamente dal fondamentale I fratelli musulmani nel mondo contemporaneo, a cura di M. Campanini e K. Mezran, Torino, UTET, 2010, che evidentemente il signor Piano ignora: il che mi stupisce, dal momento che egli mostra di interessarsi appassionatamente al problema. Ovviamente, in un’organizzazione vasta e ramificata le correnti sono molte e non mancano quelle radicali: ma il mainstream dell’organizzazione ha abbracciato una linea molto moderata, come dimostrano i due partiti fondati dai «Fratelli Musulmani» in Egitto (“Giustizia e Libertà”) e in Tunisia, dove il leader Rashid Gannusi, che sotto ben Ali ha subito trant’anni d’esilio, al suo ritorno ha immediatamente costituito un partito che sta agendo con grande correttezza, al-Nahda. Dei «Fratelli Musulmani» ha parlato con favore in febbraio anche il quotidiano della CEI, «Avvenire», sottolineando come essi si siano sempre opposti alle violenze contro i cristiani copti e al trattamento discriminante contro i cristiani. Le debolezze e le contraddizioni dei «Fratelli Musulmani» sono invece rilevate con attenzione e dottrina da A. Elshoabki, Les Frères Musulmans des origines à nos jours, Paris, Karthala, 2009. Il riferimento di Qarawadi a Gerusalemme è certo allarmante, ma va inteso nel contesto delle reazioni alla dichiarazione unilaterale di pieno, completo e perpetuo possesso della Città Santa da parte dello stato d’Israele, una dichiarazione contestata dalle nazioni unite e dagli stessi Stati Uniti d’America. 4.

«Cardini si avventura poi su una distinzione tra nostra democrazia e loro democrazia, dove non si capisce cosa voglia dire visto che la democrazia è una prassi e che essa ha riscosso un discreto successo anche in terra islamica (Filippine, Turchia, Libano e persino Iraq), almeno laddove è comparso un cero pluralismo politico, quello assente sia in Libia, che in Tunisia, che in Egitto, dove in caso di “libere elezioni” vincerebbero certo i gruppi musulmani, ma proprio perché non esistono forze politiche alternative, mentre i primi hanno avuto decenni per organizzarsi e creare strutture sociali parallele a quelle statali». Se il signor Piano non capisce i miei argomenti, ciò dipende dal fatto che egli ignora del tutto, evidentemente, il denso dibattito che proprio di recente si è svolto proprio attorno al concetto di democrazia (non semplice «prassi», bensì – l’ha sottolineato con lucidità Luciano Canfora – «ideologia» accompagnata da una forte dinamica che, proprio nel nostro Occidente, sta facendola virare verso meccanismi oligarchici). Tale ignoranza è una sua lacuna o una sua scelta, ma comunque non è colpa mia: gli consiglierei la lettura di K. Basu, Elé Belè. L’India e le illusioni della democrazia globale, Roma-Bari, Laterza, 2009, e dello stesso saggio di Amartya Sen sulle «democrazie degli altri», che peraltro mi sembra piuttosto debole ma che può servire per cominciare a porre i problemi. Non citerei tra le democrazie e le semidemocrazie riuscite il triste caso irakeno, dove il tentativo di «importare la democrazia» si è risolto in sette anni di occupazione militare straniera, una serie di elezioni truccate, una lotta feroce tra sunniti e sciiti e perfino l’affacciarsi di una violenza anticristiana prima del tutto inesistente. Trovo inoltre contraddittorio con le Sue convinzioni democratiche il fatto che Lei si lamenti del fatto che in caso di libere elezioni in Egitto vincerebbero partiti che non Le sono graditi: come democratico, lei dovrebbe anzitutto tenere alla vittoria delle maggioranze, comunque siano.

O preferisce «educare» le maggioranze, come fanno i dittatori? 5. «Dunque la sperequazione economica c’entra poco (Libia ed Arabia Saudita hanno redditi procapite più alti di alcuni Stati Ue), c’entra invece l’assenza di libertà di pensiero, la piattaforma indispensabile perché fiorisca una democrazia». No, signor Piano, la sperequazione economica c’entra moltissimo, esattamente come l’assenza di libertà di pensiero, che le potenze occidentali – l’operato politico delle quali Lei sembra apprezzare – non si sono mai curate di chiedere fosse rispettata nei casi dell’Arabia Saudita, della Libia, dell’Egitto, della Tunisia, dell’Algeria ecc., per l’ottima ragione che i governi tirannici e corrotti di quei paesi erano (e taluni sono) buoni partners economici e anche politici. In Siria e in Giordania, i governi locali hanno immediatamente risposto ai primi moti calmierando i generi di prima necessità: una manovra affrettata ma efficace almeno come primo intervento, anche se poi ci vorranno le riforme. Che Arabia e Libia abbiano alti redditi procapite è verissimo: solo che il reddito procapite è un dato teorico (se io mangio un pollo e tu nulla, abbiamo mangiato mezzo pollo a testa, diceva Trilussa). In realtà, quel che esiste nel mondo arabo accanto alla repressione è una fortissima, intollerabile sperequazione economica, che rende la situazione politica ancora più grave proprio nei paesi più ricchi. È ovvio che ogni popolo deve trovare la «cifra» politica che meglio gli è adatta (per cui è assurdo pretendere che seguano i nostri modelli). Ma sta di fatto che la libertà politica nasce sempre dallo sviluppo compiuto o dalle rivoluzioni imposte dalle classi medie, proprio quelle che nel mondo arabo-musulmano non sono mai riuscite ad emergere non a causa dell’Islam, bensì per colpa delle malefatte del colonialismo prima e poi dai regimi postcoloniali strumentalizzati fino agli Anni Ottanta dai giochi della Guerra Fredda e poi dal neocolonialismo messo in atto dalle istanze «neoconservatrici» statunitensi. Per stendere questa risposta ho chiesto al consulenza di due tra i migliori esperti di storia e di cultura arabo-islamica d’Italia, i professori Massimo Campanini dell’Università di Napoli e Paolo Branca dell’Università Cattolica di Milano.

Ecco quanto mi scrive Branca: «La primavera araba di questi giorni dovrebbe dimostrarci che, specie laddove la metà della popolazione ha meno di 30 anni, i vecchi schematismi non funzionano più e che nell’interesse della nostra stessa sicurezza (oltre che a quella d’Israele) un Egitto, ad esempio, che fra 25 anni potrebbe avere 150 milioni di abitanti che non stanno neppure decentemente a casa loro sarebbe un disastro per tutti». Il problema, signor Piano, è politico e morale; è un problema di giustizia distributiva oltre che di libertà di pensiero; il fanatismo religioso non c’entra. Del resto, i terroristi sono, negli attuali moti arabi, talmente emarginati che non hanno mai nemmeno provato a rivendicare azioni di sorta. Sanno di non essere credibili. È solo Gheddafi a volerci far credere che è al-Qaeda a tentare di rovesciarlo.

di Franco Cardini


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