di Eleonora Ardemagni
Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) rischia di essere il vero vincitore dell’intricato e irrisolto conflitto yemenita. Il movimento jihadista, nato nel 2009 dalla fusione della cellula saudita di al-Qaeda con quella di Sana’a, si avvantaggia, da sempre, dei troppi vuoti di sicurezza nella Repubblica della Penisola Arabica: essi dipendono sia dall’incapacità del governo centrale di esercitare la propria sovranità sul territorio sia dall’ostilità di alcune tribù, specie nel sud del Paese, verso le autorità statuali. La spirale di conflitto apertasi dal 2011 – quando il Presidente Ali Abdullah Saleh negoziò la sua (formale) uscita di scena dalla vita politica – ha solo peggiorato l’instabilità interna, moltiplicando i territori fuori dal controllo delle forze di sicurezza. Nuovi vuoti di sicurezza si sono così affiancati ad aree di insicurezza endemica, consentendo ad AQAP di autoproclamare, nel 2012, alcuni emirati islamici fra le città di Jaar e Zinjibar, nell’Abyan meridionale, poi smantellati grazie all’azione congiunta di esercito, comitati popolari e bombardamenti da parte dei droni statunitensi.
Proprio Jaar e Zinjibar sono appena state riconquistate da AQAP: la debolezza della presidenza ad interim di Abdu Rabu Mansur Hadi, già militare e vice di Saleh, originario della provincia di Abyan, nonché la cronica frammentazione dell’esercito, hanno indirettamente favorito l’espansione di AQAP e del gruppo locale affiliato di Ansar al-Sharia. I jihadisti, dopo la dissoluzione degli emirati islamici, si sono infatti riorganizzati più a est (Abyan orientale e regione di Shabwa), fino a conquistare zone meridionali dell’Hadramout come il capoluogo Mukalla, strategico porto commerciale sull’Oceano Indiano (la regione desertica dove si concentra l’80% del petrolio yemenita). In questo scenario, il colpo di Stato del gennaio 2015 contro le istituzioni della transizione, perpetrato dal movimento sciita zaidita di Ansarullah (gli houthi), con la complicità di segmenti dell’esercito regolare ancora fedeli all’ex Presidente Saleh, ha permesso ad AQAP di espandersi territorialmente, mentre la battaglia politica si concentrava a Sana’a.
A Mukalla, AQAP ha stretto alleanza con l’Hadrami Tribal Confederation (HTC) che di fatto amministra la città, mentre i qaedisti ne mantengono il controllo militare. I miliziani sciiti non si sono mai spinti fin qui; la regione ha invece accolto molti sfollati interni. I jihadisti, rinominatisi simbolicamente “Sons of Hadramout”, hanno interdetto la coltivazione e il consumo della foglia euforizzante del qat, tipico fenomeno di costume e socialità yemenita (nei qat chewing pomeridiani gli shuyyukh discutono e deliberano di politica), nonché fonte di sussistenza economica per molti clan locali. AQAP ha inoltre distrutto monumenti e tombe di santi sufi. Oltre a essere una regione prettamente sunnita di rito sciafeita, l’Hadramout ospita numerosi ordini religiosi legati al sufismo (le zawiyas, come a Tarim), la via spirituale e accogliente dell’Islam (tariqa) prosperata, non a caso, su queste coste storicamente interdipendenti con l’India e il sud-est asiatico. Dagli anni Ottanta, l’Arabia Saudita ha però puntato sulla diffusione del wahhabismo (dall’Hadramout originano numerose famiglie saudite), favorendo così la radicalizzazione di molti capi tribali locali.
L’escalation militare della coalizione a guida saudita contro i miliziani sciiti dello Yemen, prima solo aerea, poi anche di terra, ha innalzato il livello dello scontro inter-confessionale, moltiplicando gli attentati terroristici rivendicati da una cellula locale del sedicente Stato Islamico (IS), il cosiddetto Wilayat al-Yemen o Wilayat Sana’a (Provincia dello Yemen o Provincia di Sana’a), apparsa mediaticamente nel novembre 2014. Se AQAP, forte di consolidate alleanze con tribù locali, colpisce soprattutto le forze di sicurezza, polizia ed esercito, ovvero i simboli dell’autorità centrale, IS si scaglia contro gli sciiti come avvenuto nel marzo 2015, quando l’attacco a due moschee di Sana’a (nei quartieri controllati da Ansarullah) ha provocato oltre 130 morti tra i fedeli riuniti per la preghiera del venerdì. Tuttavia la recente uccisione di Jaafar Mohammed Saad, governatore della provincia di Aden, da parte del Wilayat Yemen potrebbe innescare una competizione intra-jihadista, con IS pronto ad attrarre i fuoriusciti da AQAP.
Proprio la cellula qaedista della Penisola Arabica e quella del sedicente Califfato stanno guadagnando spazi anche nella città di Aden, la seconda del Paese, capitale dell’ex Yemen del sud, divenuta sede delle istituzioni transitorie dopo il golpe. Quest’estate l’esercito yemenita è riuscito, con la decisiva collaborazione dei comitati popolari anti-houthi (milizie di matrice tribale) e delle forze di terra della coalizione (soprattutto emiratini) a far ripiegare i miliziani sciiti verso i territori centrali del Paese, “liberando” così Aden.
Yemen, mappa del conflitto (19 novembre-3 dicembre 2015) – Fonte: Southfront.orgTuttavia, l’arretramento degli houthi non coincide con il ritorno delle istituzioni ad Aden: essa rimane una città fuori dal controllo delle forze governative, un centro nevralgico in cui cresce l’anarchia. Infatti, dopo aver contribuito all’allontanamento dei ribelli sciiti, i miliziani jihadisti di AQAP hanno cominciato a occupare parti della città, specialmente i distretti portuali, issando bandiere nere sugli edifici pubblici. In questo quadro, il ritorno delle istituzioni transitorie ad Aden è stato violento: lo scorso ottobre, l’hotel che ospitava alcuni Ministri e il Premier (nonché vice Presidente) Khaled Bahah è stato parzialmente devastato da un attacco con autobombe, pur senza provocare vittime fra i governativi. Il gesto è stato rivendicato dalla cellula yemenita del Califfato. Proprio per ragioni di sicurezza, sia il Primo Ministro sia il Presidente Hadi continuano a riparare a Riyadh, limitandosi a saltuarie visite nel Paese. Nel sud, occorre inoltre prestare attenzione a un’altra potenziale dinamica di conflitto: AQAP e affini si espandono nei territori controllati anche dal Movimento Meridionale, che lotta per la secessione da Sana’a nel solco, però, dell’ex Repubblica dello Yemen del sud, socialista, “secolare” e anti-tribale, dunque lontana dall’ideologia del jihad.
Sul campo, la contesa tra i filo-governativi, sostenuti dalle monarchie del Golfo e i miliziani sciiti, appoggiati dall’Iran, rimane in bilico, riflettendo le carenze di coordinamento nonché operative del fronte che raccoglie le istituzioni internazionalmente riconosciute: ciò a dispetto della potenza di fuoco impiegata finora dalla coalizione, che ha peraltro causato tante vittime civili. Le forze che si oppongono ad Ansarullah e ai fedeli di Saleh hanno ripreso il controllo dell’area dello stretto del Bab al-Mandeb, choke-point fondamentale per le rotte del commercio internazionale, in primis petrolifere. Nessuna riconquista è però definitiva, specie in questo conflitto: non è un caso che i filo-governativi stiano ora concentrando le loro forze in direzione della città contesa di Ta’iz (provincia limitrofa allo stretto), terza città yemenita, dove i ribelli sciiti tentano una controffensiva. Partecipano all’operazione anche un migliaio di soldati del Sudan, Paese che ha subito fatto parte (con Egitto, Giordania e Marocco) della coalizione guidata dall’Arabia Saudita.
Dato il suo posizionamento geografico, il conflitto yemenita è, allo stesso tempo, una guerra araba e africana. L’interdipendenza fra AQAP, Ansar al-Sharia e i network jihadisti del Corno d’Africa, come gli al-Shabaab somali ormai infiltratisi nel Kenya orientale, è in crescita, anche a causa dell’anarchia alimentata dalla composita guerra in Yemen. Traffici illeciti e pirateria rafforzano questi legami transnazionali, che si intrecciano proprio alle porte delle monarchie del Golfo. La Cina, impegnata in numerose missioni delle Nazioni Unite in Africa, guarda a questo regional security complex con attenzione maggiore di altri (per esempio degli europei). Andrebbe in questo senso la probabile costruzione, da parte cinese, di una base militare permanente a Gibuti, ultimo bastione di stabilità nel “gorgo” del golfo Aden (dove già sono presenti USA, Francia e Italia).
I gruppi jihadisti prosperano in quei tessuti tribali alienati dal centro politico, dove la sovranità appartiene a tutti e dunque a nessuno (lo si è visto, con i risultati che ben conosciamo, fra Siria e Iraq). I molti attori della guerra di Yemen non sembrano, però, avere fretta di trovare una tregua, né di iniziare un serio processo di pace, poiché intenzionati a ottenere maggiori guadagni territoriali possibili prima di sedersi a negoziare. L’inviato delle Nazioni Unite spera di poter avviare un nuovo round di colloqui diplomatici tra le parti entro la fine di novembre, a Ginevra, dopo il fallimento di quelli dello scorso giugno. Mentre la diplomazia attende, la politica latita e le milizie guerreggiano, AQAP e le altre cellule jihadiste si innervano in ciò che resta dello Yemen (dis)unito.
* Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di AffarInternazionali, Aspenia, ISPI, Limes. Gulf Analyst per la Nato Defense College Foundation.
Photo credits: AP Photo/Hani Mohammed
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