La manifestazione sindacal-pacifista di ieri contro la guerra in Libia ha avuto successo quanto un raduno di degustatori della marmellata di cipolle. Non se l’è filata proprio nessuno e questa è una buona notizia. Sono state ben poche le emittenti televisive o radiofoniche interessate a trasmettere, in diretta o in differita, gli spillaccheranti deliri di questo popolo di balordi terminali. Ha fatto eccezione l’imperterrita e irredimibile Radio Popolare, dalle cui frequenze ho potuto ascoltare, finché mi ha retto lo stomaco, la consueta silloge di tardivi piagnistei, solidarietà e pietismo verso i tripolitani bombardati. Il tutto per bocca di di pulzelle e pulzelli che fino all’altro ieri mattina sventolavano su Twitter le allegre bandierine della rivolta del “popolo” contro il “dittatore”. Ora assistono impietriti e con la boccuccia a “o” alla macellazione – perpetrata con l’avallo della loro ideologia da sussidiario – di quello stesso “popolo” che fino ad oggi, nelle grinfie del “crudele dittatore”, aveva vissuto egregiamente, prosperando e facendo prosperare le nazioni limitrofe.
Non li chiamerò “pacifinti”, come va oggi di moda, perché si tratterebbe di un’imprudente minimizzazione della realtà. Essi purtroppo non sono finti, come molti avevano ottimisticamente supposto, ma reali e concreti quanto i dolori nella minzione per chi è affetto da carcinoma alla prostata. Ascoltare le loro lacrime di coccodrillo è per chiunque un’esperienza rivelatrice e terribile. Non si riesce a immaginare, senza averne un’esperienza uditiva diretta, quale sia il livello d’ignoranza, di rincitrullimento ideologico, di perniciosa astrazione dalla realtà di questa masnada di prefiche del dopobomba. Non si può credere, senza ascoltarli dal vivo, che dopo oltre vent’anni di rivoluzioni colorate e di guerre statunitensi accortamente preparate con valanghe di menzogne giornalistiche, questi bimbiminchia non abbiano ancora capito come funziona il motore dell’aggressione statunitense e non siano in grado di avvertirne la messa in moto fin dai primi sussultori scoppiettii nei servizi d’apertura dei telegiornali. Non sono bastati vent’anni di invasioni, di bufale sui “dittatori sanguinari” e sulle “armi di distruzione di massa”, di fosse comuni farlocche, di sbrodolate sui “diritti umani” risoltesi nell’ecatombe di milioni di persone in nome del principio di autodeterminazione dei popoli, per mettere un po’ di sale nelle loro zuccacce vuote. Non sono bastati decine e decine di siti internet nei quali i meccanismi propagandistici e psicologici del consenso sono stati esposti e studiati nel dettaglio per strapparli alla loro puerile riconversione del mondo in grossolane categorie kantiane: il “popolo”, il “dittatore”, la “democrazia”, la “rivoluzione”, i “diritti”, la “libertà”… in nome e per mezzo di queste frescacce, milioni di persone sono state massacrate dagli USA negli ultimi vent’anni, l’Europa è stata ridotta in uno stato di servitù senza ritorno, intere nazioni sono state cancellate, ma loro non vogliono darsene per intesi e continuano, vezzosi & gagaroni, a salmodiare questa cantilena, a cincischiare di “masse arabe” e “rivolte di popolo” su Facebook, a intrattenersi con le loro battutine e le loro stucchevoli vignettucce satiriche sui social network gentilmente forniti dal nemico.
A questi bambaloni, la mamma ha spiegato che il mondo funziona così: da una parte c’è il “popolo”, che è sempre buono e giusto, e ci mancherebbe altro, visto che dentro al “popolo” ci sono anche loro, che sono buoni per definizione. Poi ci sono i “dittatori”, da citare sempre congiuntamente all’aggettivo “sanguinari”, anche quando, come nel caso di Gheddafi, hanno dato ricchezza, benessere, unità, sovranità e indipendenza economica alla propria nazione. I “dittatori” sono sempre cattivi, perché picchiano il povero popolo e lo privano di alcuni “diritti umani” fondamentali, come quello di scrivere stronzate su Facebook o di incitare al golpe militare contro il governo del proprio paese attraverso Twitter. E poi c’è la “democrazia”, che è una cosa bella e santa, tranne quando viene eletto Berlusconi, il quale rappresenta un “pericolo” e una “anomalia”, essendo sostenuto da una parte di “popolo” ancora immatura, cioè non ancora convertita alla religione dei bimbiminchia. Quando il “dittatore” lo picchia troppo forte, il popolo si arrabbia, scende in piazza, spacca tutto, fa la rivoluzione e instaura la democrazia, come succede in tutti i film americani, che fanno parte della dieta alimentare dei bimbiminchia quanto i Fonzies e i Kellogg’s Choco Pops. E questo è il mondo, nell’infantilismo iperuranio del pacifismo piazzettaro.
Questa alluvione di fanfaluche ha avuto fra i suoi principali propugnatori – oltre ai suddetti minorati del volemose bene – gli ambienti del giornalismo, del sindacalismo e dell’intellettualismo di sinistra, mai dimostratisi così spudoratamente incompetenti, cialtroni, traditori, gravidi di malafede e proni al nemico come in questa esecrabile occasione. Nel tentativo di rimediare qualche consenso elettorale presso i cervelli bacati e di mostrarsi servili e pronti all’obbedienza verso i dominanti USA, i componenti dell’acquitrino ex comunista hanno messo in campo il peggio della loro weltanschauung da luna park, hanno dato fondo ad intere miniere di menzogne e distorsioni informative. Di un tentato golpe tribale, finanziato e orchestrato dagli interessi americani, con l’ausilio di alcuni sguatteri europei (Francia e Inghilterra in primis), hanno fatto una gioiosa primavera del popolo libico in rivolta contro il tiranno. Della legittima e sacrosanta reazione del governo libico al tentato putsch, hanno fatto uno “ sterminio perpetrato dal dittatore contro il suo popolo”. Quando lo sterminio, dopo l’intervento della coalizione da essi invocata, è iniziato sul serio, hanno glissato elegantemente, ciarlando d’altro o nascondendosi dietro i “né..né” tra la folla dei pacifisti buggerati. “Né con Gheddafi, né con gli USA”: una posizione traballante e vigliacca, in cui la doppia negazione, ben lungi dall’equivalere ad un’affermazione, come avviene nella grammatica prescrittiva, è invece equiparabile ad un muggito bovino, al rantolo di un’ideologia che, non avendo più nulla d’intelligibile da comunicare all’universo mondo, non intende comunque risparmiargli il fragore dei suoi rutti.
Mai era successo che, per avere qualche scampolo di verità su una guerra americana, il lettore di quotidiani dovesse rivolgersi ai giornali della destra, dove è stato possibile reperire – fra inevitabili cumuli di baggianate – qualche prezioso articolo di Marcello Foa o di Giancarlo Perna. Perfino Giuliano Ferrara, resosi conto che la storiella del “tiranno che massacra il suo popolo” era divenuta ormai insostenibile, ha scritto nel suo editoriale sul “Foglio” di oggi: “Tutto nasce da quella balla che l’inviato di guerra Ricucci ha denunciato in solitario: le fonti di disinformazione erano tutte dalla parte dei ribelli ed erano piazzate tra Bengasi e Londra, i diecimila morti fatti da Gheddafi non esistono, i bombardamenti del raìs contro il suo popolo sono un’invenzione macabra, le fosse comuni lanciate in tv erano un piccolo cimitero marino d’antan, la solita emittente Al Jazeera imbrogliava le carte e voleva rifarsi non si sa quale verginità sul terreno molle di un Gheddafi odiato dagli islamisti puri e duri [...]”. In realtà Ricucci non ha denunciato affatto “in solitario” le menzogne dei media, che erano state immediatamente evidenziate su questo e altri blog. A parte questo, viene da chiedersi come mai il più filoatlantico dei giornalisti italiani denunci oggi con tanto vigore le bufale propagandate dai media americani per sostenere e giustificare una guerra americana. Che cosa sta succedendo?
Alla posizione di Ferrara si aggiungono altri eventi curiosi: D’Alema, anch’egli storicamente deferente verso ogni politica d’aggressione imposta all’Italia dai tirafili statunitensi, ha dichiarato che l’intervento militare “è stato necessario [sic] ma ora bisogna far parlare la politica”. Gli eventi libici sono stati relegati nelle pagine interne dei giornali, soprattutto da quando le forze lealiste di Gheddafi sono passate per la seconda volta al contrattacco, riconquistando gran parte delle posizioni perdute dall’inizio dei bombardamenti della coalizione.
A ripensarci adesso, mi rendo conto che una delle fonti d’informazione più illuminanti e veritiere su quanto sta accadendo in Libia è rappresentata dal discorso che Gheddafi tenne alla TV di stato libica all’inizio della “ribellione” teleguidata delle tribù cirenaiche.
In quell’occasione, Gheddafi dichiarò: “L’Occidente mi chiede di farmi da parte per dare la libertà al popolo libico. Questo è ridicolo. Sono io il popolo libico”. Questa affermazione, su cui all’epoca avevo sorvolato, ritenendola una magniloquente espressione retorica, esprime in realtà una banale verità oggettiva. La Libia è un paese inventato. E’ stato creato a tavolino tracciando su una carta tante belle linee regolari e doveva servire alle potenze coloniali come avamposto per il controllo del Mediterraneo. All’interno di quelle linee non c’è un “popolo” – come vanno farneticando i pacifisti e chi fornisce loro la biada – bensì una moltitudine di tribù diverse per lingua, tradizione e cultura, spesso divise da rivalità e faide secolari: Harabi, Warfallah, Bani Walid, Tarhuna, Obeidat, Zuwaia, al-Awakir, Magariha, ecc. E’ stato Gheddafi a unificare questa macedonia di tradizioni e culture diverse, facendone qualcosa di molto simile ad una nazione coesa e sovrana. Per farlo ha utilizzato sì il pugno di ferro (governare una realtà così frammentata e difficile non è esattamente come governare Gallarate), ma anche la politica, l’unificazione religiosa, la concessione di diritti, la costruzione di infrastrutture nazionali, la diffusione di benessere seguita alla nazionalizzazione delle imprese estere e l’orgoglio indipendentista seguito alla chiusura delle basi militari americane e inglesi. Senza Gheddafi non c’è nessun popolo libico. Togliete Gheddafi alla Libia e la Libia scomparirà, tornando a essere quel caleidoscopio di tribù l’una contro l’altra armate che era all’epoca del fantoccio re Idris, prima del 1969. Probabilmente è proprio a questo che mira l’intervento dei “volonterosi” crociati: distruggere la Libia come nazione per poter meglio controllare, nel caos risultante, le sue risorse e la sua posizione geostrategica. Se l’obiettivo era quello di scatenare il caos, la “rivoluzione” preparata dagli USA con la collaborazione dei francesi nel novembre scorso, dopo la defezione del braccio destro di Gheddafi, Nouri Massoud El-Mesmari, può dirsi per il momento riuscita.
Gheddafi dichiarava, nella stessa occasione, che coloro che l’occidente chiamava “manifestanti” altro non erano che un’orda di masnadieri violenti e “drogati”, che assaltavano caserme e uccidevano poliziotti allo scopo di sovvertire l’ordine nel paese. Il termine “drogati” mi aveva colpito e soltanto adesso inizio a capire che anch’esso non era stato utilizzato a caso. Queste truppe di “ribelli” mostrano di possedere lo stesso livello di coraggio, di disciplina, di strategia militare, di determinazione e di intelligenza politica che potevano avere i giovinastri sottoproletari strafatti di canne nelle rivolte del ’77 bolognese. All’inizio della “rivolta”, molti giornalisti che accompagnavano questi bei tomi nel loro percorso erano rimasti allibiti dall’esibizionismo e dall’atteggiamento assai poco militare che costoro evidenziavano negli scontri con i lealisti. Portavano con sé fucili e batterie antiaeree che non erano assolutamente in grado di utilizzare. Si sedevano sull’equipaggiamento militare (gentilmente offerto da chissà chi, essendo le batterie antiaeree un bel po’ al di fuori della portata economica di semplici “manifestanti”) al solo scopo di farsi scattare fotografie dagli amici e di mettersi in posa per la stampa. Sparacchiavano continuamente a casaccio in segno di esultanza, sprecando munizioni e rischiando di colpire i compagni. Si trastullavano, giocavano a carte, tutto facevano tranne che prepararsi ad affrontare l’imminente e prevedibile reazione delle truppe governative.
Questo branco di feroci cialtroni (che Gheddafi ha etichettato, a ragion veduta, come “drogati”) sembra venuto fuori dritto dritto da un fumetto di Andrea Pazienza. Ha dimostrato una tale incapacità nella strategia e nel combattimento da lasciare interdetto anche il più bendisposto dei cronisti. Avevano dichiarato ai quattro venti di non volere nessun aiuto militare dell’occidente, ma poi hanno iniziato a frignare e a invocare tra i gemiti un intervento esterno quando le truppe del governo hanno spazzato via in pochi giorni tutte le loro “conquiste”. Hanno avuto l’appoggio mediatico di tutte le TV e di tutta la stampa del mondo asservita ai progetti americani; hanno avuto l’avallo dell’ONU e il riconoscimento politico da parte della Francia; hanno ricevuto armi, finanziamenti e mercenari da Francia, Stati Uniti e Inghilterra; hanno potuto contare sui bombardamenti della coalizione, che, contravvenendo a quanto previsto dalla risoluzione 1973, non si è limitata a proteggere i civili, ma ha favorito sfacciatamente l’avanzata di questi codardi, facendo a pezzi le milizie di Gheddafi che stavano per raggiungere la loro roccaforte di Bengasi. E nonostante questo non sono riusciti ad ottenere niente. Si sono limitati ad infierire sui cadaveri fumanti dei lealisti lasciati a terra dai bombardamenti americani, a torturare i prigionieri e a farsi scattare nuove fotografie sui rottami dei carri armati che incontravano sulla strada già “liberata” dalle bombe altrui. Appena hanno rimesso piede a Ras Lanouf, hanno dichiarato, trionfanti e frettolosi, che avrebbero iniziato a vendere il petrolio della zona alle aziende straniere. L’emiro del Qatar era al settimo cielo, visto il gran numero di aziende qatariote che operano nella regione. Ma non appena i bombardamenti alleati si sono rarefatti, i poveri idioti – che non si erano curati di predisporre nemmeno uno straccio di presidio del territorio – sono stati nuovamente ricacciati verso est, e questo nonostante le truppe lealiste fossero state fortemente indebolite dagli attacchi occidentali dei giorni precedenti. Una simile criminale imbecillità può essere spiegata solo tenendo conto di quanto spiega Webster Tarpley nel video che ho sottotitolato qui sopra: in buona parte non si tratta di cittadini libici, tantomeno di persone fornite di addestramento militare, ma di mercenari senza arte né parte, reclutati tra il sottoproletariato dell’Egitto e di altri paesi arabi per essere messi al servizio delle tribù della Cirenaica; le quali sperano di avere, in una Libia senza più Gheddafi, una percentuale più consistente sulle vendite del petrolio che si trova nel loro territorio.
Gheddafi aveva anche detto che all’origine di questi disordini c’erano “uomini di Al Qaeda”. Anche qui avevo scambiato questa affermazione per una sparata propagandistica e anche qui ero stato poco attento. Ormai anche i sassi hanno capito che “Al Qaeda” altro non è che un esercito di mercenari più o meno fanatici approntato dalla CIA per intervenire nelle zone del Medio Oriente, dove gli Stati Uniti, un po’ per scarsità delle risorse economiche, un po’ perché la fanteria non è mai stata il punto forte delle loro milizie, non possono più permettersi di inviare truppe di terra. Il progetto è dunque – come spiega Tarpley – quello di armare questi jihadisti della domenica per utilizzarli al posto delle truppe di terra che gli americani non sono in grado di impiegare. Naturalmente è assai improbabile che una simile armata Brancaleone riesca a conquistare o a controllare zone di territorio; ma per creare caos e destabilizzazione essa è perfetta, ed è probabilmente questo l’obiettivo che gli USA intendono perseguire.
Qualche mese fa, Robert Gates, il ministro della Difesa degli Stati Uniti, parlando ai cadetti dell’accademia militare di West Point aveva detto: «È mia opinione che ogni futuro segretario alla Difesa che dovesse consigliare di nuovo al presidente degli Stati Uniti di mandare un contingente militare importante in Asia, in Africa o in Medio Oriente dovrebbe essere spedito a farsi analizzare il cervello». Siccome non risulta che Gates abbia prenotato appuntamenti con l’analista, è probabile che nelle intenzioni statunitensi non vi sia la prospettiva di inviare contingenti militari in Libia, almeno se per “contingente militare” si intendono truppe di terra. Tuttavia il malcontento e le divisioni relative a questo nuovo intervento armato si stanno facendo più forti di giorno in giorno, acuite dalla resistenza – non prevista ma del tutto prevedibile – delle milizie di Gheddafi. E non solo all’interno dell’UE, con la defezione della Germania, con il gelo diplomatico tra Italia e Francia sulla questione della direzione operativa dell’intervento e della gestione degli immigrati; ma anche in seno alla stessa amministrazione USA, in cui è forte la paura di un nuovo pantano militare e dell’emergere di uno scandalo (legato alla fornitura di armi ai jihadisti) proprio alla vigilia della campagna presidenziale. Non è un caso che gli USA abbiano volentieri ritirato (almeno formalmente) i loro aerei da combattimento dalle operazioni libiche, lasciando i partner della NATO a metterci la faccia. Lo stesso Robert Gates, in una dichiarazione congiunta con il capo di stato maggiore Mike Mullen, si è dichiarato nettamente contrario al progetto della Casa Bianca di fornire armi ai ribelli, suggerendo che tale incombenza dovrebbe essere lasciata ai paesi arabi o ad altre nazioni. “Il mio punto di vista”, ha detto Gates, “è che se proprio deve esserci questo tipo di assistenza all’opposizione, vi siano una quantità di entità diverse dagli Stati Uniti che possono porla in atto”.
Questa dottrina del “partecipiamo, ma senza partecipare” è essa stessa rivelatrice di un’esitazione che rispecchia i contrasti e le divisioni presenti all’interno dell’amministrazione e del Congresso americano. E’ probabilmente per questo che anche i maggiordomi italiani di sinistra e di destra, dopo l’iniziale entusiasmo interventista, hanno assunto posizioni più equilibrate e tengono ora il piede in due scarpe nell’attesa di vedere quale linea d’azione prevarrà nell’establishment americano. Il rovesciamento di Gheddafi si è rivelato un’operazione assai più complessa del previsto, in cui tutti i mezzi della propaganda, della pianificazione strategica, dell’intelligence e della forza militare americana sono stati utilizzati senza però ottenere, per il momento, risultati apprezzabili. Qualcuno forse inizia a capire che il leader libico non è poi così “odiato” dal suo popolo, se il sostegno della popolazione lo ha aiutato a rimanere in sella anche di fronte all’aggressione congiunta e poderosa dell’intero mondo occidentale. Le stesse defezioni dei suoi fedelissimi, che sono state comunque esagerate per finalità propagandistiche (il ministro degli esteri Moussa Koussa, rifugiatosi a Londra, era comunque da tempo sgradito al governo libico perché sospettato di aver collaborato alla fuga di Nouri Massoud El-Mesmari), non sembrano influire sull’esito del solido contrattacco militare portato avanti dai lealisti.
Sarebbe bello se questa resistenza indomabile e quasi eroica da parte del leader di una nazione piccola e male armata contro la prepotenza dei padroni del mondo, insegnasse ai lamentevoli pacifisti nostrani che la differenza tra un paese prospero e forte e un paese degradato e irrilevante non sta nella forma di governo (“dittatura” o “democrazia”) o nel rispetto di chimerici “diritti umani”, bensì nella determinazione di un establishment dirigente a perseguire una politica incentrata sull’interesse nazionale, anziché su fantasie ideologiche dietro le quali si nasconde soltanto il vassallaggio verso padroni invisibili. E sarebbe poi il massimo se questa banda di piagnucolosi tutori di “popoli” immaginari imparasse a diffidare delle “rivoluzioni” teletrasmesse; le quali hanno ben poco a che fare con il volere delle collettività nazionali e molto con il desiderio dei dominanti di annientarle, con il consenso indotto degli sciocchi, che scorgono fantasmagoriche “primavere di democrazia” dove c’è solo devastazione e conquista.
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