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Alain Fleischer e il cinema come rito seriale

Creato il 08 febbraio 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Alain Fleischer e il cinema come rito seriale

Alain Fleischer è un caso contemporaneo di artista totale: fotografo, scrittore, regista e direttore de Le Fresnoy, singolare laboratorio delle arti che si è posto in un lungo confronto col cinema. Fleischer ha saputo contemplare le ragioni della specificità delle discipline artistiche in un processo olistico di acquisizione assoluta e di contaminazione fatale: nel suo percorso, lo spirito euristico del documentario non ha mai abdicato al fascino elegiaco, né lo sperimentalismo ha assunto le sembianze di un rito della forma pura; in ciò, la complicità della scrittura ha costituito l’eco generativa delle cose e il dominio consapevole dei dispositivi della finzione.

Alain Fleischer e il cinema come rito seriale

Fleischer ha eretto un corpus concettuale sul minimalismo come ragione ontologica del pensiero e delle sue rappresentazioni, impiegando entro termini criticamente raffinati i principi dell’ossessione e della coazione a ripetere. Nella serialità come momento organico del postmodernismo il suo cinema si è compiuto nella rappresentazione della distopia come horror vacui del quotidiano, intervenendo con folle rigore nell’opera di trasfigurazione di quel dispositivo rituale e mitico che è la ragione prodromica del simulacro. La riconduzione al monismo della dialettica delle arti si realizza così nella tecnica suggestiva del messaggio seriale, quel desiderio insano per il rito come luogo del principio di quell’esistenza che si dà per effetto di svuotamento e consunzione psicologica. In fondo, la ragione della moltiplicazione si attesta sempre alle origini dell’unico come dimensione ossessiva.

Alain Fleischer e il cinema come rito seriale

Fleischer non ha mai filmato gli usi, il palinsesto delle azioni umane rubricate dal codice comportamentale: nel suo cinema nulla aderisce al codice. La cerimonia visibilissima delle sequenze delle sue opere racconta ossessivamente un catalogo di idee in intimità, di concetti in azione; allievo di Claude Lévi-Strauss, Fleischer applica l’etnologia dello sguardo ai nuovi selvaggi della modernità, gli abitatori della metropoli. Nessun ornamento pletorico, nessun dramma esasperato: della monotonia delle azioni seriali il cineasta coglie gli oscuri avvicendamenti interiori dei suoi personaggi. Scrive Fleischer: “È quando ogni drammatizzazione psicologica è assente che l’oscurità appare nelle sue cerimonie più segrete”.

Alain Fleischer e il cinema come rito seriale

Alain Fleischer e il cinema come rito seriale
Cinema della cerimonia, dunque, non presente all’interlocuzione, volto alla rappresentazione di un paesaggio quotidiano che è, esso stesso, rappresentazione, un universo disciplinato e insieme fantastico che il cineasta censisce con la macchina da presa, assumendo l’orrore delle abitudini dei suoi interpreti accidentali, i loro comportamenti, le loro fissazioni, i loro itinerari, l’(in)conclusione spaventosa dei loro riti. La vecchia idea del pedinamento cinematografico ha trovato in Fleischer un interprete ossessivo, inquietante, vistosamente monocorde e maniacale, sfinitamente elencatorio. Quasi prossimo al cinema di Warhol, Fleischer se ne distanzia dal momento che la sua analisi si rivolge ad un mondo del tutto ordinario, occultando, voyeuristicamente, la macchina da presa. Se Warhol è in qualche modo il punto di non ritorno del cinema di finzione, perché finge qualcosa che è già finto, Fleischer registra la realtà in tutta la sua insensatezza. Cinema semplicissimo, chiarissimo, radiografico, muto. Eppure nella luce si nascondono le ombre: percezioni di traumi complessi, frammenti di racconto, ragioni contro ragioni che baluginano attraverso il cinema come uno spazio ubiquo tra finzione e realtà.

Beniamino Biondi

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Scritto da il feb 8 2012. Registrato sotto TAXI DRIVERS CONSIGLIA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

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