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di Giuseppe Leuzzi. Cronache del solito viaggio organizzato e controllato, nel 1967. Inutili quindi, non fossero d’autore. In questo, però, travolgenti: come si fa, si faceva nel 1967, a non vedere nelle Guardie Rosse di Mao una massa militarizzata? E dirla invece spontanea. Moravia l’ha fatto, prima dei maoisti del ’68, dei nazimaoisti, e di Dario Fo. Sul “Corriere della sera”. E poi ne ha fatto un libro, che Luca Clerici, imbarazzato, ripropone per “I Libri di Alberto Moravia” – “la Cina”, dice, “sembra sottrarsi allo sguardo di Moravia”.
La rivoluzione lo scrittore mette in coppa agli stereotipi: “Un tratto molto cinese è la nessuna curiosità per l’estero”, i cinesi sono tutti uguali, i cinesi sono poveri e contenti di esserlo, i cinesi sono liberi. O scemenze camuffate da agudezas: la Rivoluzione Culturale è un’altra Passione, ha“lo stesso fervore, lo stesso stile, la stessa ingenuità”, “la Grande Muraglia ha, ovviamente, due facce: l’una, interna, che guarda la Cina; l’altra esterna che guarda la Mongolia”, al di qua della grande Muraglia, “la Cina ha scoperto di essere vuota”… Non senza un po’ di Pasolini – censure e passatismo: la povertà ricca, la castità ferace (“l’amore non porta al rapporto sessuale, porta alla castità”, “il piacere che l’uomo e la donna si procurano l’un l’altra non differisce che in apparenza dalla prostituzione”, l’erotismo era creativo nel “passato arcaico, primitivo, magico”). C’è anche “il carattere religioso”,di nuovo, “della Rivoluzione Culturale”, e “l’origine contadina di questo carattere”, e siamo solo alla pagina 33 – detto da chi non è mai stato in una campagna cinese, e non ha letto nei sinologi quanto impervio sia penetrarla. Moravia non si spreca insomma, disimpegnato come sempre, si sa che non si commuove mai e nulla lo turba, ma qui con l’ansia di dispiacere: “l’uomo occidentale” è “un budello che si riempie di sterco”, la produzione si fa per il consumo, ignobiltà suprema, “come nelle case moderne la cucina è spesso adiacente al cesso” –questo non è vero: bisogna economizzare negli scarichi, ma i due restano distinti (e comunque, nelle case antiche il cesso non c’era e bisognava andare fuori, si faceva anche senza la produzione e il consumo), la guerra “serve ad alleviare le costipazioni periodiche”, la bomba H “è legata alla sovrapproduzione” – non agli Usa? Ma anche l’esame di coscienza occidentale (borghese, cristiano) fa scontato. Si rileggono queste corrispondenze come un ritratto d’autore. Che non era opportunista. Della Rivoluzione Culturale annotava contemporaneamente “la follia” nel diario, che pubblicherà vent’anni dopo, nel 1986, ma più che altro era abulico, un bambino che, di fronte alla novità, strizza gli occhi come per escluderla. E, tutto sommato, poco curioso: disappetente. Tutto sommato perché fu viaggiatore quasi compulsivo, da sempre. Pure in Cina nel 1937, con soggiorni in posti remoti anche di mesi e anni. Qui fa molti apologhi: la ricchezza della povertà, il complesso occidentale di don Giovanni, Mao confuciano e quasi mandarino… Ma – candido come sempre, altra sua caratteristica – dicendo infine di non avere visto bene:“Il più delle volte l’occhio non distingue niente di preciso, nessun aneddoto, nessun evento particolare”. Chiude la raccolta con un articolo sulla Corea del Sud. Che nello stesso 1967 non ha nulla (“tutte le industrie e le materie prime si trovano nella Corea del Nord”,il reddito pro capite al Sud è 108 dollari, contro i 120 dei cinesi poveri di Mao), ma “pretende” di diventare ricca. Alberto Moravia, La rivoluzione culturale in Cina. Ovvero il convitato di pietra, Bompiani, pp. LXX-201 €10 Featured image, cover.