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Alberto,abbraccia el comandante

Da Astonvilla
ALBERTO,ABBRACCIA EL COMANDANTE
Ieri, quando è morto, all' Avana, Alberto Granado aveva 89 anni, era un vecchio ancora solido, ma un vecchio. E i vecchi vivono di ricordi. I ricordi di Granado erano soprattutto il Che, e però lui si rifiutava di mostrarsi come il monumento del suo passato e di quel viaggio in moto che ha fatto poi la storia d'una vita.
«Ma tu lo sai cos'era l'America Latina in quel tempo?», mi chiese una sera «il dottore», rilanciando sulle domande che gli facevo, e i suoi occhi chiari si persero dietro immagini, facce, storie, vite lontane che soltanto la sua memoria poteva riprendere dallo scorrere lento degli anni. Ci vedevamo nella sua casa, bassa e quieta, e lui sedeva fuori, nel patio, a sorbire l'umidità delle sere quando l'uragano s'avvicina e l'aria si fa pesante.
Ufficialmente, all'Avana, Alberto Granado, era «il dottore», lo scienziato che ha messo su il Centro di ricerche mediche e biologiche che oggi sono uno dei vanti di quest'isola dove la Revoluciòn è sempre più un mural stinto dal sole e dalla crisi; ma poi, nei suoi giorni fuori dal lavoro, e nei ricordi che soltanto lui conosceva, Granado era comunque, e soprattutto, il mitico compagno di viaggio di Guevara, in quella straordinaria risalita del continente che su una vecchia moto - uno a guidare e l'altro appeso dietro, i bagagli affastellati dentro un'enorme sacca di tela - i due argentini avevano progettato e realizzato muovendo alla scoperta d'un mondo che la loro giovane curiosità nemmeno poteva immaginare.
«Ma tu lo sai cos'era l'America Latina in quel tempo?». I giornalisti di mezzo mondo lo andavano a trovare come l'icona di un sogno smarrito. Non glielo dicevano, certamente, le interviste mascherano la crudeltà con l'ipocrisia, ma quell'insistenza con cui lo attaccavano di domande e di curiosità su un lontano tempo felice e sulle tristezze di un presente agro ruotavano sempre attorno a quella spericolata traversata che fu la nascita d'una leggenda. Gli chiedevano del Che Guevara, della rivoluzione svilita, dei sogni impossibili d'una guerriglia che doveva strappare il mondo dalle sue apatie, di come l'alba cancelli tutte le notti, anche quelle fascinose dell'utopia, ma lui guardava i giornalisti con i suoi occhi fondi, annuiva lievemente con la testa, e poi chiedeva: «Sin embargo,vos sabés lo que era este Sur del mundo, en el anô 1952?».
Era il '52, certo, e i due giovanotti che avevano appena lasciato l'università, a Cordoba, decisero che volevano conoscere quel continente, quella loro terra che si perdeva per decine di migliaia di miglia dentro foreste, deserti bianchi di sale, montagne di neve, storie e civiltà che il tempo aveva cancellato. Erano due giovanotti curiosi di sapere, li affascinava soprattutto l'etnologia, l'antropologia, il recupero d'un passato che la loro identità di argentini bianchi, di discendenti d'una emigrazione venuta da lontano, dall'altra parte dell' Oceano, rischiava d'ignorare, di sottrarre dalla forza concreta della realtà dei popoli.
Partirono allegramente, con quella loro moto che è diventata, essa sì davvero, un monumento, una leggenda, e partirono per scoprire gli Inca, gli Aztechi, i Caribe, e trovarono invece uomini di carne e storie amare, miseria, povertà, malattie, disperazione, soprusi del potere. «Pero, vos sabés lo que era en el 1952 nuestra tierra?». Il viaggio mise presto da parte l'etnologia e l'antropologia per trasformarsi in un'avventura dello spirito critico, nella scoperta di un mondo che nella violenza delle sue ingiustizie chiedeva e imponeva la rivolta, la denuncia, la ribellione. Granado e Guevara passavano i loro giorni a discutere, a raccontare, a commentare e - poco alla volta, in una presa di coscienza progressiva - anche a imporsi il dovere di non accettare come immutabile quello che appariva come il destino d'un intero continente.
Avevano carattere diverso, il Che più focoso, lui, Granado, più pacato, più tranquillo; le discussioni li accendevano di passione, «c'erano anche contrasti, letture diverse», diceva Granado in quel patio assorbito d'umidità, ma l'amicizia e l'intensità del mondo che andavano scoprendo li riuniva a un conclusione comune. Si separarono quando uno si fermò a curare i lebbrosi d'un piccolo villaggio e l'altro continuò su quella sua moto che s'allontanava in una nuvola puzzolente di fumo. E però si ritrovarono qualche anno dopo: uno era diventato un ricercatore, scienziato di grandi intuizioni, e l'altro aveva fatto, invece, la rivoluzione di cui avevano parlato e discusso in quella loro lunga traversata della vita.
«Venni a trovarlo, qui, all'Avana, che lui faceva il presidente del Banco Nazionale. Chiesi all'usciere di farmelo incontrare; quello mi disse che no, che il comandante stava studiando matematica finanziaria e non poteva essere disturbato». Sorrideva divertito, toccandosi i baffi grigi, «il dottore», quella sera, mentre mi raccontava i suoi ricordi. Ci scrisse su un libro di memorie, ne fecero anche un bel film. Chi il film lo ha visto, è come se l'avesse conosciuto davvero, questo vecchietto di baffi grigi e di memorie lunghe che sempre ti chiedeva: «Ma tu, lo sai cos'era l'America Latina in quel 1952?». E sorrideva del ricordo, felice.

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