Impariamo a scrivere forti di una consapevolezza, imposta il più delle volte: se non si ha nulla da dire, il quaderno, il diario, qualsiasi cartaccia possono stare benissimo lì dove sono, a ingiallire su qualche scaffale o in qualche cassetto . Non è sbagliato, starete pensando, e, in effetti, non lo è. Lo diventa, però, quando la “dittatura del contenuto” impone alla forma di farsi da parte; in poche parole, quando a contare è ciò che si dice e non come lo si dice.
Nel giro di poche frasi unite da questa splendida congiunzione, che non vuole dire nulla ma serve a tanto, si calpestano, magari inconsapevolmente, migliaia e migliaia di anni di Letteratura e dibattiti linguistici. Non è un’esagerazione: se l’equazione contenuto/forma fosse stata, in realtà, una disequazione a favore del primo e non della seconda, cosa ne sarebbe stato, per esempio, del Futurismo e del suo indiscutibile rifiuto di virgole, punti, aggettivi e avverbi? E della questione della lingua che coinvolse, e impegnò, i più illustri scrittori italiani dal Cinquecento fino ad Alessandro Manzoni? Inutile proseguire con gli esempi, la premessa è chiara: conta non solo ciò che si dice ma anche – e soprattutto – come lo si dice, semplicemente perché lo strumento linguistico a nostra disposizione, “appena nato”, “cresciuto” o “morto”, è l’unico che ci consente di dire ciò che vogliamo dire e di scrivere ciò che vogliamo scrivere. Le parole che abbiamo, insomma, e il modo in cui le combiniamo, sono l’esatta trasposizione del nostro pensiero, anche quando sono sbagliate (in fin dei conti, se non riesco a esprimere un concetto correttamente, o non mi è chiaro o c’è bisogno che mi impegni di più per rivederlo oppure non corrisponde esattamente a ciò che intendevo; in ogni caso, non è più il concetto di partenza, e necessita di altre parole).
Libero da vincoli e da contesti comunicativi, dunque, io sono ciò che scrivo. A pensarci bene, questo è vero anche se si è “intrappolati” in un contesto: in quella circostanza, in un botta e risposta serrato con uno scocciatore, in una e-mail destinata a un amico o a un docente universitario, in qualsiasi altra situazione, io decido cosa dire e come dirlo. Anzi, in certi casi è proprio la forma ad avere la meglio; che sia curata o non curata, non ha importanza: a prescindere da tutto, il mio “io” vive attraverso le mie parole.
Capite benissimo, dunque, che l’equazione contenuto/forma non può, e non deve, trasformarsi in una disequazione a favore del primo membro: Alessandro Manzoni non scriveva come Ugo Foscolo; Dante Alighieri era lontano anni luce da Francesco Petrarca. La scrittura, insomma, indipendentemente dai suoi perché, è autoaffermazione: affermazione di se stessi.
A tal proposito, vale la pena riprendere un pensiero di Aldo Busi, uno di quelli che si prestano a ore e ore di dibattiti e ragionamenti; perché no, anche di studi:
“Dove non c’è forma, o la sostanza non c’è o non è tua”
L’esistenza di una forma “propria” è data per scontata dallo scrittore. Qui Busi fa, infatti, un passo in avanti, ed è un passo che ci fa allontanare, senza abbandonarlo, dal concetto di scrittura come autoaffermazione, per farci avvicinare, ma solo in punta di piedi, a un altro interrogativo: “Di quale forma sta parlando?” In altri termini, se è vero che il pensiero di ognuno di noi vive attraverso dei segni (che possono essere parole, dipinti, foto, note, gesti e via dicendo), questi segni hanno una forma arbitraria o debbono rifarsi a una forma comune? Ce lo spiega l’autore, quando precisa che:
“Buttata alle ortiche la forma – la cui suprema bellezza democratica starebbe nel fatto che ognuno, applicando le stesse regole per tutti, si fa la propria -, la sostanza è la stessa infestante gramigna indifferenziata per tutti”.
Le regole esistono e valgono per tutti, dunque; e solo quando le si conosce, si può decidere di “stravolgerle”, di “volgerle”, cioè, “fuori”, “in altro senso”; il che non giustifica, ovviamente, l’esistenza di una forma arbitraria, anzi: ammettendo un qualsiasi stravolgimento, non faccio altro che dare per scontata l’esistenza di qualcosa di già esistente, che io, a mio modo, ho rivisto.
Lo stile non è propriamente questo, basta leggere ciò che scrive Busi più attentamente: si parla di “suprema bellezza democratica”, che consiste nell’attingere a delle regole (comuni per tutti) per costruire non delle nuove norme, ma il proprio mondo, quello che permette al nostro pensiero di venire fuori nei modi più disparati. L’autoaffermazione di se stessi attraverso i segni passa, dunque, prima per una convenzione, il sistema linguistico, sulla cui formazione ed evoluzione tanto si è detto e tanto si dirà, ponendo, accanto ad usi e consuetudini (accettabili o meno), norme da seguire, le stesse che garantiscono l’equilibrio.
A tal proposito, le parole dello scrittore sono incisive:
“Nessuna barricata avrà mai un qualsivoglia effetto politico stabilmente antifascista se poi non si ribaltano le sedie nel verso giusto e non si rimettono al loro posto, perché nessuna rivoluzione potrà mai rivoluzionare il modo di sedersi e il mezzo basilare per farlo”
E poi ancora:
“Avere cura di piazzare gli accenti éed è, per esempio, significa avere cura della propria igiene e mentale e fisica, significa allenarsi alla lotta per il ripristino della giustizia sociale e costringere i delinquenti a rendere il maltolto e a provarsi, almeno, affinché a ciascuno sia dato il suo (anche se io non credo che neppure nel merito ci sia del merito: chi ha veramente del merito, oltre a non farsi mettere i piedi in testa da chi di sicuro non ne ha o ha solo il mediocre merito della sopraffazione e va castigato senza indugio, poi non ne approfitta per mettere i propri sulla testa altrui)”
Il paragone è efficace: non c’è “rivoluzione” che possa cambiare “il modo di sedersi e il mezzo basilare per farlo”, così come non ci sarà mai una forma che, in un modo o nell’altro, e comunque sfuggendo alle regole, possa stravolgere l’equilibrio del sistema linguistico. Se è vero, insomma, che la lingua cambia e si evolve, è altrettanto vero che lo fa sfruttando i meccanismi di base, appoggiandosi ad essi, e non modificandoli. Lo stile, che è poi la propria forma, va quindi inquadrato entro limiti precisi, aspetti del sistema che tendono a conservarsi.
Ciò che va combattuto, dunque, non è l'evoluzione della lingua, né il materiale che questa assorbe dalle altre con cui è a contatto,ma la sua deformazione, la sua caduta – scrive Busi – in una “dittatura aggiornata secondo le moderne tecnologie, [una] dittatura oligarchica della finta democrazia relegata al popolino che fa numero e la supporta, la rassegnazione alla democraturadella vittima contenta, spesso tronfia dei suoi contenuti svuotati dall’alto, dei suoi valorisenza sostanza perché non operati nella propria identità di individuo ma inculcati come un marchio di fabbrica seriale”.
L’essere umano, quindi, ha non solo il diritto, ma anche il dovere, di cercare i propri segni e loro combinazioni: “Che altro è l’umano sapiens – conclude lo scrittore –se non il faberdella propria forma unica e irripetibile?”
Tutte le citazioni riportate si trovano qui
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