Denny Casabianca26 aprile 2013
Anch’io come Leo da ragazzo credevo che i miei insegnanti non avessero una vita fuori dalla scuola, e qualora l’avessero avuta sarebbe stata un’escrescenza di quella vissuta in aula. Avrebbero parlato di guerre e civiltà dimenticate con gli amici, dolcificato il caffè con espressioni algebriche e dato ai loro figli nomi di grandi scrittori. Ad influenzare la scelta dello scenario in cui si svolge la trama del primo romanzo di Alessandro D’Avenia, per l’appunto la scuola, è sicuramente la cattedra ottenuta contemporaneamente all’inizio della stesura di Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori, 2010). Credo che Leo, il protagonista del racconto, sia davvero ispirato da un alunno dello scrittore. Il suo atteggiamento sfrontato, irriverente, il suo astio verso un professore che diventa poi amico e guida, mi ha lasciato intendere che il libro di per sé sia stato scritto per far comprendere agli adolescenti l’importanza formativa ed educativa che ha la scuola nei confronti della vita. È il segreto del successo di D’Avenia seguire il filone Moccia e scrivere storie d’amore adolescenziali. A tracciare un percorso diverso è la leucemia, sangue bianco che uccide il sangue rosso della vita. È la malattia, infatti, a rendere bianca e pallida Beatrice, timida ragazza dai capelli rossi, ossessione d’amore di Leo.
Se i contrasti tra bianco e rosso non fossero così ridondanti e Beatrice avesse un ruolo attivo oltre ad essere l’idea fissa di Leo, il romanzo potrebbe guadagnare qualche punto in più. Purtroppo, per quanto ci sia la voglia di sensibilizzare il lettore alla donazione del midollo osseo, Beatrice risulta essere troppo eterea e rassegnata. Un giovane innamorato di una ragazza con cui non ha mai parlato, una fanciulla neanche maggiorenne che affronta la morte con la rassegnazione di una donna vissuta, a mio avviso risultano elementi un po’ campati in aria e, se considerate anche il cliché della migliore amica innamorata dall’infanzia, il romanzo non spicca certo per la sua originalità. Bisogna comunque riconoscere che ci sono piccole perle che spingono il lettore alla riflessione e che riscattano almeno in parte quello che sembra il diario dei pensieri di un adolescente stampati su carta in maniera coatta. Se Leo non fosse un ragazzo così giovane, l’intero libro potrebbe essere destinato ad un pubblico più ampio, ma lo stile risente troppo dell’ambiente in cui la vicenda si svolge: un linguaggio troppo spicciolo, familiare soltanto a chi ha la stessa età dei protagonisti, pagine di appena sole dieci righe e largo uso di onomatopee sbattono il muso contro la pesantezza della malattia.
Neanche il recente adattamento per il grande schermo riesce a valorizzare la storia, che come da manuale è stata privata di quei passi che davano più spessore al racconto ed arricchita di aggiunte commerciali. Leo nel film risulta ancora più immaturo per il peso affidatogli, il professore che nella pagina scritta è una sorta di Grillo Parlante diventa il bullo maturo che non stimola più il protagonista con parole e sogni ma con sfide fisiche. Beatrice, invece, è sicuramente più partecipe ed attiva, ma rimane sempre un personaggio surreale, nonostante sia il fulcro della narrazione. Personalmente mi sento di sconsigliare il libro a chi ha pensato che scritte come «Io e te tre metri sopra il cielo» siano state solo modi per imbrattare la città e non gesti romantici. Leo trova risposte alle sue domande nel T9 del suo cellulare, espediente simpatico ma non ci si può scrivere un romanzo sopra. Anche nella seconda parte della storia, in cui il ragazzo riesce finalmente ad avere un contatto con Beatrice, il testo resta ai confini della realtà. L’idea di poter trasformare la camera di una sconosciuta in tutti i suoi sogni risulta eccessiva, così come eccessiva ed inverosimile appare la spensieratezza con cui si conclude il fortunato volume di D’Avenia.