Alessandro Polcri, LUIGI PULCI E LA CHIMERA, STUDI SULL’ALLEGORIA NEL MORGANTE, Società Editrice Fiorentina 2010
Di sfuggita, visto che tutti i poemi cavallereschi cosiddetti “minori” sfuggono alle grandi prove dell’Ariosto e del Tasso, per fare almeno due nomi, numi tutelari, quantomeno, e punti di riferimento di tutta la tradizione dei romanzi e dei jongleur.
Il prof. passava veloce, limitandosi a mettere l’accento sull’aspetto bizzarro di questi oggetti di letteratura minore, in cui il giullaresco, il divertissement popolare prendeva il sopravvento e, certo, indimenticabili sono rimasti nella memoria certi passaggi del Ruzzante dove l’impasto vocale è tutto in funzione della costruzione di caratteri a tutto tondo, pantagruelici, votati al gigantismo e all’eccesso – un sostrato di origine popolare certamente non basta a spiegare il senso di simili invenzioni -.
Così, del Morgante, gigante battezzato da Orlando e avviato sulla strada della retta via, ricordo l’episodio burlesco della montatura del cavallo e la conseguente morte di questo per il grande sforzo di reggere il peso del gigante, versi che ora ritrovo citati in questo poderoso saggio:
Morgante ‘n su un prato il caval mena
e vuol che corra e che facci ogni pruova,
e pensa che di ferro abbi la schiena,
o forse non credeva schiacciar l’uova.
Questo caval s’accoscia per la pena,
e scoppia e in sulla terra si ritruova.
Dice Morgante: – Lieva sù, rozzone. -
E va pur punzecchiando collo sprone.
pag. 133/134.
Alessandro Polcri, studioso, ci dimostra come questo Morgante impregnato di tutta la tradizione allegorica medioevale, sia “un serbatoio inesauribile di forme, una estrema propaggine dell’enciclopedismo medioevale – Paolo Orvieto citato a pag. 69″, contro il rischio di considerarlo semplicemente come un’opera “parodica…il prodotto finale di una tradizione allegorica ormai stanca”, p.234 ma, piuttosto, di una tradizione rivitalizzata.
Così, per esempio, il fatto che Morgante non si renda conto di aver ucciso il cavallo col suo peso, è spiegato in funzione dell’allegoria: non essere coscienti del proprio stato, in un percorso di iniziazione verso la conversione destinato necessariamente, attraverso mille altre allegorie, a giungere a una condizione quantomeno di cavaliere appiedato!
Ché, se la storia di Orlando si situa nella strada della riconquista di una fede perduta, quella di Morgante rappresenta invece un vero e proprio cammino verso la consapevolezza, partendo da uno stato abruptus dell’essere.
E come non pensare alla selva oscura, alla montagna del purgatorio – nel Morgante troviamo altre montagne, per esempio l’olimpo -. Come non pensare al flauto magico e alle diverse strade di redenzione riservate a Tamino e a Papageno, proprio in funzione della diversa condizione spirituale di partenza!
Impossibile qui, certamente, riassumere il lavoro di uno studioso, laddove la letteratura si configura come ricerca storiografica, lettura e interpretazione delle fonti coeve – ma anche, e soprattutto, antecedenti la stesura del poema – con l’intento di sdoganare il Morgante da una interpretazione riduttiva di poema popolare e/o religioso, ma di ripensarlo come una delle ultime opere nate sul solco della tradizione allegorica medioevale, prima dell’avvento del neoplatonismo ficiano – e tutta la prima parte del libro è, appunto, dedicata proprio alla querelle Pulci/Ficino.
La lettura di questa indagine mi ha stimolato poi, alcune considerazioni. So, per assiduità di ascolto, che la tradizione dei poemi cavallereschi, e in particolar modo le epopee legate alla figura di Orlando, hanno avuto una continuità di sviluppo e variazione fino al barocco musicale; al settecento, insomma. Probabilmente il meraviglioso, oggi appannaggio quasi esclusivo del mondo delle immagini, si è sempre appoggiato, invece, sulla funzione affabulatoria della parola, sulla sua capacità evocatrice; sul cantare – sono canti, queste narrazioni, non capitoli – e Polcri ci ricorda che il Morgante fu un vero e proprio best seller popolare alla sua epoca. Mi chiedo dunque che cosa impedisca alla modernità, così come è stato con Dante, la riesumazione di testi, almeno quelli maggiori, che forse si presterebbero – abbassando il livello di una lettura per allegorie – a una pura narrazione, a un giocoso e gioioso riappropriarsi del racconto, della favola.
Insomma, lo sdoganamento dall’oblio dei poemi cavallereschi ha funzionato, ed è operazione ancora in corso, attraverso il tramite della messa in musica del barocco musicale; perché allora non dovrebbe funzionare un ritorno alla fonte letteraria, alla musica mediata, questa volta, direttamente dalla struttura prosodica?
Laddove la storia di Orlando, della sua follia e del suo deragliamento, è tema che i moderni hanno mostrato di apprezzare e di sentire in sintonia col proprio animo tormentato, il Morgante potrebbe situarsi sulla scia di un raccontare altrettanto favoloso, di un evocare mondi dell’animo, piuttosto che il fascino di geografie sconosciute. Ché, se questa era una funzione, e non l’ultima, di queste storie – spalancare gli occhi all’esoterico e al misterioso – oggi lo sguardo si è talmente abituato a visioni svendute e scadute che forse un ritorno alla parola, al racconto senza il supporto dell’immagine, al cantare, insomma, potrebbe ridar vita a queste opere extraordinarie, gigantesche nella forma e nell’intenzione come, appunto, il gigante Morgante e i suoi fratelli:
Di sopra alla badia v’era un gran monte
dove abitava alcun fero gigante,
de’ quali uno avea nome Passamonte,
l’altro Alabastro, e ‘l terzo era Morgante:
con certe frombe gittavan da alto,
ed ogni dì facevan qualche assalto.
I contemporanei, insomma, dovrebbero imparare a ricantare queste storie.
Sebastiano Aglieco