Pubblicato da Giovanni Nuscis su gennaio 14, 2012
La pietra e il vento è il titolo della terza raccolta poetica di Alessandro Vetuli, edita da Fermenti. La pietra a evocare solidità, consistenza, stanzialità, e non solo (“venero questa mite pietra/ ho riconosciuto il mio volto nella sua sagoma/vi ho riconosciuto la mia poesia smarrita.” – Adonis); il vento, invece, è impalpabile forza che trascina, modella, scompiglia, “scava (dove non ci sono più volti”). Elementi antinomici ma non irrelati, la cui valenza archetipica ben introduce questa bella raccolta.
Si rileva innanzitutto un buon numero di testi dedicati o ispirati (a Turoldo, Alda Merini, San Francesco d’Assisi, Nelly Sachs, Adonis, Sylvia Plath, Dylan Thomas, Arthur Rimbaud etc.); dedica che qui non è però solo omaggio alla loro grandezza, ma tributo di riconoscenza, se non dichiarazione di “fratellanza” (Rimbaud). Ascendenze e fratellanze che non si fermano, ovviamente, alle dediche, manifestandosi invece in un sentimento empatico e grato, di contiguità fattuale con gli autori citati, alla ricerca della luce e del dolore che ha contrassegnato la loro opera o la loro esistenza, la loro unicità esemplare: “Amelia Rosselli/La piaga del sentire ti suppurava sulla bocca/…/ Ma dov’è la radice del tuo rovo?/Dov’è l’origine delle tue ossa?/Dove finisce il poeta ed inizia il martire?” (Per Amelia Rosselli). Poetiche dal segno forte, quelle degli autori richiamati, i cui echi sembrano innervare la scrittura del Nostro. A cominciare dalla tendenziale ricerca di immagini ed espressioni che, per originalità e adeguatezza, sanno farsi sostanza e forma del discorso poetico: “Sono andato nell’orfanotrofio della poesia/Miriadi di bambini di luce/Mi hanno guardato”. Visioni che vedremo acuirsi mano a mano, nel dare espressione a quella religiosità aconfessionale assai ricorrente nei poeti, aderendo con profondità alla bellezza del creato ed aprendosi, nel contempo, al suo mistero: “Il tuo pastrano/È una reminiscenza di vento/Un tremore che vibra/Muovendo le ombre sull’acqua/Vivi allo stesso tempo tre esistenze parallele:/Il frate, il poeta e il viandante./E rimani lì, a baciare seni di pietra/In un erotismo innocuo/Un piacere raggiunto attraverso l’ascolto”. Una religiosità non disgiunta dall’etica, sia nei comportamenti sia nell’indefettibile ricerca del senso dell’esistere: “Quello che mi interessa sono gli eremiti/I frati, i monaci, gli assolutori e gli assolti/Le dite spezzate del giudice disarmato contro il perdono/La toga stinta d’ogni rancore trasformata nella vela bianca/Che spinge la barca dei naufraghi/In questa vita dove le persone si assalgono/E si radunano sotto quello che sanno essere l’unico punto di/rottura”. E la vita come la poesia non possono allora che nutrirsi di ascolto, e di silenzio: “Il silenzio è la miglior poesia/Che sia stata mai scritta/È il verso universale/Scritto dagli eremiti del cielo,/nel giorno in cui tutti parlavano troppo senza saper veramente parlare.”; e, da ultimo, immancabilmente, di amore: “Perché l’amore/È la grande rivoluzione che la roccia insegna/E il vento predica.” gn
*
Sono andato nell’orfanotrofio della poesia
Miriadi di bambini di luce
Mi hanno guardato
Ma uno solo mi ha sorriso
E mi ha preso per mano.
*
Quello che mi interessa sono gli eremiti
I frati, i monaci, gli assolutori e gli assolti
Le dite spezzate del giudice disarmato contro il perdono
La toga stinta d’ogni rancore trasformata nella vela bianca
Che spinge la barca dei naufraghi
In questa vita dove le persone si assalgono
E si radunano sotto quello che sanno essere l’unico punto di
rottura,
Scuotono con violenza le proprie radici
E non hanno nessuno che aspetti a terra
Per raccogliere le foglie.
*
Il silenzio è la miglior poesia
Che sia stata mai scritta
È il verso universale
Scritto dagli eremiti del cielo,
nel giorno in cui tutti parlavano troppo
senza saper veramente parlare.
Una dislessia cosmica,
una costante ferita sulla lingua
Che i poeti si sono continuati a fare
*
Le rondini volano libere
Sciolte dalle catene azzurre del cielo
Mi arrampicavo sulle rocce
Amico soltanto dello spazio,
dicendomi che se fossi riuscito
A mettere i piedi di roccia in roccia
Senza inciampare, allora avrei dovuto farcela
Anche con i miei problemi.
Ora sono diventato muto e cieco
Le ossa si sono riversate in queste parole
Liquefatte nella nebbia
Ora tutto non è altro
Che la parola del poeta e dell’asceta,
un’ombra che affannati continuiamo a inseguire
Una poesia che disperatamente vogliamo scrivere
Una donna che invano cerchiamo di amare.
Seduto sullo sperone infine,
pronuncio queste parole:
“Solo quando le pagine del libro saranno bianche
potremo finalmente imparare a leggere”.
*
Spiaggia di Sant’Agostino
Scavato nelle macerie
Di bocche che si toccarono
Le case in legno, verniciate da padri e figli
Si affacciano sul mare.
I pescatori qui
Sono indistintamente grani di sale
Sparsi nel recipiente del mare
Senza una direzione,
riportano sempre, come i pesci,
le loro lacrime a casa.
Ho attraversato il sentiero
Che conduce alla spiaggia
Dov’è troppo alta la risacca
E respinge perfino il tentativo del vento
Di trapassarti gli occhi
Con un’immagine di lutto
Che sembra fresco
Sul petto aperto dagli schizzi
La parola delle tue barche immobili,
della punta aguzza dello scoglio
attaccata come l’unghia del pescatore
alle branchie del cielo.
La voce di questo gruppo di casette
Radunate nel pugno della sabbia
E sempre pronte ad annegare,
una luce che si accende la sera
da dietro le finestre,
la mamma che richiama i bambini per la cena…
E gli amanti sulla panchina
Che ascoltano le loro promesse
Nella conchiglia del giuramento
*
Il logoramento è una colomba
Che sussurra una parola
Che passa per tutte le vie uditive del poeta
Consentendogli di svelare il proprio dolore
Per trasformarsi in uccello
*
Corpo di poesia
per Alda Merini
L’acqua è immobile sotto il Naviglio
Calma come una donna fluviale che dorme…
Un cancello si chiude a chiave,
una sigaretta si spegne,
una poesia mai scritta gettata nel cassonetto di luce.
Alda,
goffo angelo in pigiama
Viandante zoppo
Che ti sostieni col bastone della poesia,
ora puoi amare Cristo liberamente
Nel lecito adulterio del sacro.
Stacchi filtri continuamente dalle sigarette
Sui tuoi polmoni c’è una poesia incisa in nero intitolata: “Cancro
alle ossa”;
“Sto morendo ?”, chiedi sommessamente
Ma Gesù, che ha chiodi da mezzo chilo piantati nei polsi
Non sa risponderti.
Eppure adesso sorride anche in croce
E pazientemente aspetta vicino al tuo letto
Che gli restituisca il tuo corpo di poesia
È arrivato il momento,
devi ridare indietro ciò che ti è stato dato
e ciò che hai scritto.
Gesù s’inginocchia
E dolcemente ti chiede questo
Come unico pegno d’amore.
Il terzo giorno forse
Ha i provato anche tu
A spostare il macigno celeste
Che sprangava l’entrata del tuo sepolcro
Come nella cella del manicomio,
quando la porta era sbarrata
E rannicchiata nell’unico sprazzo di sole
Segretamente davi appuntamento alla poesia.
E credevi ai tuoi compagni,
che piangendo giuravano
di aver sentito un suono di carillon provenire dal sole
La bocca ora
Assaggia la sabbia d’un nuovo deserto,
meno amara di quella che assaggiasti in terra.
Ora sei stata accolta,
piantata nelle sconfinate semenze delle nuvole
Custodita nella serra della creazione
E non lasciasti che versi a tua figlia,
alla quale ora, più che mancare la poetessa
Manca la mamma.
Alda,
albero secolare dell’ironia
Sulla tua corteccia rugosa
Prolificano i fiori di primavera,
quei fiori che rivelarono le loro gemme
quando nascesti
E che ora hanno l’eterno profumo
Del pane azzimo spezzato a Nazareth
E delle vie della vecchia Milano
Alda,
il Sinedrio del tempo ha preso la sua decisione
ed è irrevocabile.
Stamattina su tutti i giornali c’era il tuo viso
Quello stesso che scherniva “I cretini che soffrono per amore”,
quella signora un po’ strana che canticchiava Dalla e Celentano,
che raccontava di Quasimodo
E che ora finalmente si è ricongiunta al suo compagno
universale
Dopo aver sciolto i ghiacciai della poesia.
Perché grande Alda,
un pazzo può sempre amare
A volte addirittura più d’un poeta
O di un Dio
*
Alla Verna
Mi hai mostrato l’ascolto
La meditazione, la preghiera e la compassione
Hai teso l’orecchio ancestrale
Per conoscere i passi di chi andava
Appigli di pietra mi hanno sostenuto
Mentre guardavo i fiori di ciliegio
Agitarsi come aghi floreali di antiche bussole
I faggi mi hanno nascosto e rivelato,
sapevi che quel viandante ero io.
Sono passato dove forse Dino Campana era passato
Pensando a Sibilla, trucidato nel suo manicomio d’amore…
Ho recitato insieme a te la liturgia del vento
Ho parlato in silenzio della mia poesia
Certo che le cave fossero le mistiche vie del tuo udito
Questa poesia è gratitudine
Per il tuo dono di dolore e gioia,
roccia annegata nell’assenza
Monito di nudità,
Miracolo immobile che da la possibilità di cercarsi.
Mi sono seduto sullo strapiombo
Su cui Francesco, lebbroso per scelta,
veniva a pregare e ad infrangere la sua castità con il sole
Dandogli tutto il suo intimo
Ho incontrato la poesia,
ho accolto gli spettri addensati nell’erba
Ho visto l’immagine pura d’un uomo.
L’imponente croce di legno
Sembra un parafulmine
Su cui convergono tutti i dolori del mondo,
le fessure tra i sassi
hanno sentito la rottura delle unghie
di chi si ostina a cercare
Verna,
ho sparso nella terra le sillabe
Ho confuso il cuore con le bacche
Ho confuso l’amore con il donare.
Verna
Io sono il monaco con il saio di nuvole
E la corda di nebbia che mi cinge la vita
Che è venuto a capire.
La poesia per me è stata un cappuccio abbassato
Che ha sempre rivelato il mio volto
E che nel cammino del nulla
L’ha sempre oscurato
Verna io amo e amerò sempre
Perché l’amore
È la grande rivoluzione che la roccia insegna
E il vento predica.
*
Agonizzante nella tua ruota di tortura,
La bocca che rigetta schiuma
E l’amore ora è libero
Libero da Dio, libero dalla fede
Libero dall’impossibilità di essere amato.
Gira frantumandoti le ossa
Nella sua dentatura impietosa
Questa eco di legno ripetuto
Che s’insinua dentro di te
E nei tuoi sentimenti
Sprangandoti i versi
Poeta, tu vortichi con i tendini spezzati
Che sembrano fibre in tempesta
Laddove cercavi solo il soffio dei mulini a vento,
E vedevi l’immagine di un paio di occhi verdi
Che piangendo ti dicevano
Che chi è sensibile non può sempre perdere…
Ma hai revocato la vittoria
Perché la tua è una sofferenza fertile
È un seme che hai seppellito nella corteccia umana
E che ora è un pioppo in fiamme
Una combustione straziante,
Che brucia l’eternità nelle foglie
E le fa cadere ai piedi della tua penna.
*
Da una finestra
Io ti guardo ancora
Stendere l’impasto
Con il legno della tua umanità
Un perfetto ritmo
Tra il dono e il canto
Un voler dimostrare
Che negli ingredienti
Non c’è livido o ferita
Ma che con la stessa semplicità
Si può appianare l’erba chiodata
Su cui camminiamo.
*
Dove il vento scava
Il vento scava
Dove non ci sono più mani,
Il mare erode
L’antichità di volti che si conoscevano
E apre smagliature su rocce arse dal sale,
Segno che la gioia c’è stata.
Dove non ci sono più lacrime
C’è questo scrivere e questo dover dire
Un linguaggio salato in cui bruciano
Tatto e memoria,
La mano che percorreva il corpo nudo
Ha perso sensibilità
La donna distesa
Non ricorda più chi fosse stato a toccarla
Dove non c’è più voce
Il silenzio ha lasciato una spiaggia spianata
Case disabitate, rovine, bambini che chiamano
Spighe che oscillano
Grano abbandonato sui campi
Poesie abbandonate nei corpi.
*
David Maria Turoldo
Il tuo pastrano
È una reminiscenza di vento
Un tremore che vibra
Muovendo le ombre sull’acqua
Vivi allo stesso tempo tre esistenze parallele:
Il frate, il poeta e il viandante.
E rimani lì, a baciare seni di pietra
In un erotismo innocuo
Un piacere raggiunto attraverso l’ascolto
La pioggia ti lima le spigolature del viso
E leviga l’attesa del cuore stanco,
Il pane raffermo delle ossa che torna friabile
E tralci di sillabe sonore come campane
Mature per essere colte.
*
Per Amelia Rosselli
“Con la terra che sembra tremare di coincidenze
non ho fiato per gridare la mia indifferenza”
Amelia Rosselli
La piaga del sentire ti suppurava sulla bocca
Un sapore di psicosi che invadeva il palato
La paura di essere accerchiata da una sorta di Gestapo
Mandata dalla solitudine
Ma dov’è la radice del tuo rovo?
Dov’è l’origine delle tue ossa?
Dove finisce il poeta ed inizia il martire?
La voce è impressa nella pietra
Che lascia incisa un’impronta sonora,
Un calco di perfetto silenzio
Disegnato su cose transitorie
Eri in fila con gli altri comunicandi
Ma non hai potuto mangiare la stessa ostia,
Perché la gola bruciava quando parlavi
Era una cavità che raccoglieva in sé il mare
E riportava a galla soltanto il sale.
Il tuo esilio ora si è sgretolato in rondini
E i piedi sono tornati all’argilla,
Le giunture slegate
Senza opporre alcuna resistenza
Si sono sciolte dal nodo del buio
E fasciata nei versi
Ancora ti celebrano i poeti
Che ti portano a spalla
Nella lettiga dell’alba
*
L’anello mai sciolto
a Monica
Anima troppo sottile
Con il tuo anello sciolto
Su cui si rifletteva l’estate dell’unione
Le spalle
Sempre appoggiate al mio portone
Come un respiro mantenuto caldo
Che appanna il vetro,
riflesso in cui vedo attraverso.
Taglio in cui vedo il volto del recluso
Incidere il calendario dell’asfissia
Sulla pietra umida dell’amore.
Troppo libera
O troppo prigioniera,
il tuo piede sempre vicino al mio
Il tuo amore sempre vicino al mio
Il tuo palazzo sempre vicino al mio.
È tua questa poesia
La leggerai quando le quattro del mattino
Saranno ancora il tuo regno,
il reame degli abbandoni e degli abbandonati
Si schiuderà alla dolcezza della tua alba
E arriverai sempre con un’iscrizione di neve
Nei tuoi “Deliranti processi mentali”
Non conoscerai il tradimento;
ingoierai la comprensione
deglutendo fuoco
E con il corpo in fiamme ritornerai ad amare
Le lacrime saranno sudore
E il sudore sete
Sulla bocca che mi amerà sempre
Come sappiamo noi.
*
Mentre mi parli
Mentre mi parli
Una luce liquida ti solca la piega del naso
È l’unghia della verità che s’insinua
Nella tua nudità e ti screzia il seno d’immagini,
Ti apre una crepa scintillante
Dove ancora fluisce e respira
L’incendio delle persone che hai amato.
Ma io che ti amo
Sono da sempre immerso nel fuoco
E nel fumo della tua ingenuità
Vedo mani delicate che dalla carezza,
Passano al soffocamento di false vittime
E non riescono a disfarsene come Pilato
Perché gli occhi conoscono troppo bene
La via del ritorno
Cerchi di frantumare sul pavimento della ragione
Le tue intime croci infrangibili,
Che riemergono nel viso di chi ha assaggiato il tuo seno
E ora cede il posto al morso della mancanza;
lo sperma che hai accolto dentro
a labbra serrate, a gambe serrate aveva un nome
Ed ora è un risveglio improvviso,
Una forgia di pianto
per l’armatura che protegge il sentire
Mi parli di allontanamenti necessari
Di corda consumata dei credo
Che non permette all’altalena di muoversi,
Come una tavoletta di legno paralizzata nel parco
Spinta dal bambino che non si rassegna
Che a sua volta è spinto dalla bambina che non si rassegna
Perché la poesia si oppone alla gravità,
l’amore si oppone al cedimento
E le nostre mani si sostituiscono
Ad ogni corda d’altalena che ceda.
*
Alessandro VETULI
Come la pietra e il vento
FERMENTI 2011
Introduzione di Dale Zaccaria
*
Alessandro Vetuli è nato a Roma nel 1989. Ha conseguito la maturità scientifica. Attualmente studia Lettere
moderne presso l’Università degli Studi Roma Tre. Ha iniziato a scrivere all’età di quindici anni curando un
diario. I suoi primi versi scaturiscono dopo la lettura dei poeti maledetti Baudelaire, Verlaine, ma soprattutto Rimbaud.
È stato inserito in alcune antologie poetiche. Seguono le raccolte: L’invisibile (2009) e Lo spirito e il corpo (2010).