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alessia e michela orlando: AMMIRANDO "IL BIBLIOTECARIO" DI ARCIMBOLDO-TRA TANTI SEQUESTRI TRAGICAMENTI VERI, ECCONE UNO INVENTATO DI SANA PIANTA. PER RIDERCI UN POCO SOPRA GIACCHÈ FA BENE ALLA SALUTE E NON PORTA SFIGA

Creato il 03 dicembre 2010 da Gurufranc

MEZZO METRO DI SALAME. GRAZIE

Il vapore acqueo stava saturando tutto l'ambiente. Le ombre che avevo intravisto appena entrata erano ormai carne e anime a me note.

   Quasi tutte.

   Mi era stato necessario un tempo dilatato all'estremo per credere ai miei occhi, per vincere l'incredulità. Non avrei saputo dire come mai mi trovavo lì, né quale ruolo avrei dovuto svolgere, o per quali ancestrali ragioni avessi annuito quando una voce al telefono mi disse solo: Tu sei Manuela. Mancano otto giorni. Il dado è tratto. Ti arriverà una mail con l'indirizzo. Alle ventuno in punto ci saremo anche noi. Preparati adeguatamente soprattutto occultando i tratti del viso. Non limitarti alla solita calza a rete calata a mò di passamontagna.

   Nei giorni successivi più volte mi ritrovai assalita da dubbi e angosce, capaci di estraniarmi dall'inclemenza del tempo. Quel tono di voce mi ritornava alla mente e quel che comunicava era ben più suggestivo del significato delle sole parole. Tentai di riempire il tempo dell'attesa nei soliti modi: corso di lettura veloce, tentativi vani di appassionarmi alla pittura, lezioni teoriche di nuoto, chattate infinite con perfetti sconosciuti che adombravano misure delle zone intime con delle quali non si potrebbe parlare senza suscitare invidia in mezzo mondo maschile, risposte in face book ad altrettanti sconosciuti che si ritenevano amici giacché eravamo stati tre giorni nello stesso asilo o cinque anni alle superiori odiandoci e guardandoci con occhi storti a ogni inevitabile incontro. Considerato che ottenevo scarsi risultati, provai a dedicarmi alla numerologia, all'autoipnosi, allo yoga, a un corso di cucina, a uno di falegnameria, a uno di sceneggiatura, a uno di fotografia e a un corso di spagnolo, ovviamente tutto on-line, al sollevamento pesi, alla scrittura erotica, allo yoga, alla corsa podistica, all'ippica, si, pure all'ippica mi diedi. Ottenni scarsi risultati: dolori articolari, un senso di pesantezza ineliminabile nei globi oculari, indolenzimento dei muscoli, uno strappo alla coscia destra, una storta alla caviglia sinistra, una mezza gastrite, una mezza cecità, calvizie da continue grattate di testa, inauditi dolori al fondoschiena, il torcicollo, i calli alle mani. Ed ero divenuta pure stitica. Ritornai ai tentativi di apprendimento delle lingue on-line dedicandomi a un corso veloce di tedesco combinato al cinese. La pubblicità prometteva che chi aveva una formazione di stampo neolatino sarebbe stato facilitato.

   Tutto inutile: dopo tre giorni sapevo dire solo ja e javoll ed ero mortalmente annoiata, con il morale sotto i tacchi, la schiena a pezzi, insonne e con la sensazione che il tempo fosse immobile; con il solito pensiero nella mente che faceva aumentare a dismisura il turbamento. All'improvviso tutto cambiò. Era la quarta notte che affrontavo nella certezza di non riuscire a prendere sonno. Pensai: Se la tecnica del chiodo scaccia chiodo funziona, proviamo ad applicare lo stesso principio. Mi preparai una caffettiera da otto tazze di caffè di sola qualità arabica. Attesi che anche l'ultima goccia di vapore espandesse il suo aroma nell'angusta e parecchio sporca cucina, lasciai raffreddare il caffè nella tazza bianca con strisce rosse e un gatto che più nero non era possibile disegnare, acciambellato e con gli occhi chiusi, bevvi tutto d'un fiato. Dopo due minuti poggiai la testa sul tavolo e crollai in un sonno profondo. Sognai la stessa voce che mi diceva: lasciati andare, stai serena, stai serena, stai serena, tutto si aggiusterà. Mi parve di sentirla per un secolo. Al risveglio mi ritrovai sbavata e di buono umore, malgrado le mani formicolanti e rattrappite tipo l'avaro di Molière, un dolore persistente nel fianco destro e il collo immobilizzato. Il pensiero della telefonata finalmente era collocato in un luogo della mente abbastanza lontano dalle mie capacità percettive e non più assillante, tanto da consentirmi di andare al bagno, liberarmi le viscere e la vescica, lavarmi sotto le braccia, spazzolarmi, imprecare contro il destino avverso per via dei tantissimi capelli assenti all'appello. E andare a comprare il giornale. Tutta l'edicola era tappezzata dalla locandina con la copertina di un settimanale dominata da un volto femminile che lì per lì non riconobbi. Mentre andavo via sentii dire a un tipo dalla voce acuta come la punta di un kris: Come dicono i napoletani non c'è mastice per cosere 'a purchiacca. Non capii cosa significasse, ma doveva essere divertente se un gruppo di giovani con zaino in spalla, che avevo appena incrociato, si mise a ridere sguaiatamente. Nel giornale non c'era nessuna nuova, quindi tutto era nella norma, tutto andava proprio bene: il presidente che diceva mettiamoci d'accordo, siamo tutti sulla stessa barca, la crisi continuava, l'inflazione era la più bassa di ogni tempo con la conseguenza che dall'Italia non si esportava, le fabbriche chiudevano, qualche morto ammazzato qua e là, numerose esondazioni, la neve su Grenoble, un ingorgo al traforo del Frejus, qualche incauto sciatore sotto prevedibili frane, soccorritori morti per colpa loro, un attentato ad una procura della repubblica calabrese, il rincaro delle tariffe elettriche e del pedaggio autostradale, qualche tentativo di attentati ad aerei diretti in U.S.A., braghe dei viaggiatori da spiare, bambini maltrattati, donne violate, pioggia intensa al sud, la crisi della giustizia, il ritardo della giustizia, il ritardo dei treni. E c'era per fortuna qualcuno che diceva: tutto procede per il meglio e nella pagina culturale veniva esposta a tutta pagina la copertina di un fondamentale giornale settimanale dedicata tutta alla incisiva intervista a Noemi Letizia, in cui finalmente confessava tutta la verità sull'amore e sul suo dopo Berlusconi. Sette giorni dopo avevo quasi dimenticato l'appuntamento. Meccanicamente controllai la posta accumulata nella casella e individuai un messaggio tra lo spam. Cliccai con circospezione e mano tremante, come stessi per accendere la miccia ad una polveriera su cui stavo seduta a culo nudo e lessi: «Silvio è già in mano nostra. L'Organizzazione ha provveduto a sostituirlo con un sosia». Non credevo a ciò che leggevo, non poteva trattarsi di lui, insomma, proprio di quel Silvio. E allora a cosa sarebbe servito il sosia? Accesi la televisione e in due delle varie reti vidi la sua faccia rimessa a nuovo, con il sorriso ancor più smagliante, tirata fuori ogni tanto tra una nuova esondazione, un nuovo ritardo abissale di treno affollato e sporco, un nuovo tentativo di attentato, una sentenza arrivata venti anni dopo e le tasse di registrazione da pagare malgrado non fosse stato percepito il risarcimento dagli sfortunati attori, che così si chiamano i parenti di quelli che muoiono per malasanità e iniziano una causa. E lui, il Silvio, riappariva, finalmente e per fortuna rinato, ringiovanito, gioviale e di buon umore come sempre; stringeva mani, intascava bigliettini, firmava autografi, tra le adulazioni di fan in delirio e cori da stadio. Ed Emilio Fede, come sempre, arricchiva i particolari della cronaca che lo riguardavano ammiccando, gongolando, gesticolando, sempre più vicino ad un orgasmo mediatico che ogni volta si approssimava e doveva necessariamente concludersi con un coito interrotto per evitare guai con la buon costume. Intanto Eros Ramazzotti cantava la solita nuova canzone, stavolta intitolata Controvento, arricchita dal rumore di un vetro infranto, da un mazzo di chiavi lasciato cadere in un tombino e dalla profonda, bellissima e originalissima quadruplice rima baciata: …Ma qualcosa dentro mi si è spento. È già un po' di tempo che cerco di parlarne a te, non hai capito mai, non vedevi il mio sfiorire lento…La sentii sette o ottocento volte mentre gustavo un piatto di riso in bianco, ma veramente bianco, quasi come la faccia di certi tedeschi appena arrivati in Italia, condito solo con una grattatina di parmigiano reggiano con la crosta un po' ammuffita. Dovetti correre al bagno per vomitare, ma non compresi se per la muffa che mi ero limitata a guardare o per l'indigestione di rime baciate e ribaciate fino a sazietà di entrambe le orecchie. In ogni caso pensai che da quel momento in poi un po' di rosso al riso in bianco l'avrei aggiunto, in maniera da farlo assomigliare alla faccia dei tedeschi quando vanno via dopo una settimana passata in Italia. Anche perché pare che il licopene, che nulla ha a che fare con certi affari penzolanti, contenuto nelle bucce dei pomodori, faccia proprio molto bene e che allunghi la vita. Ritornai davanti al video del p.c. e solo allora mi resi conto che non avevo neppure letto la parte più importante della mail: l'indirizzo. Pensai: Oh cazzo!, ma questo indirizzo lo conosco. E non sbagliavo: era proprio l'indirizzo di casa mia, quello dello stesso civico. Tirai un respiro di sollievo giacché non era indicato il numero dell'appartamento. D'altronde, dove avremmo potuto mai nascondere un estraneo? Come avremmo potuto tenere sequestrato qualcuno se si vive solo in due stanze, uno sgabuzzino, una cucina e un bagno? Oltretutto in quegli spazi vivevamo già in quattro umani, due cani e un gatto. E per quanto si potesse essere incattiviti, si poteva mai relegare un Silvio in meno di qualche migliaio di metri quadri? E quale menù avrebbe dovuto fornirgli il carceriere in capo?   Cominciavo già a pensare che si trattasse di uno scherzo in cui solo io potevo cascare, quando sentii trambusto. I rumori inconsueti provenivano da una zona che non seppi ben individuare, ma di certo era sottostante il livello del mio appartamento. Tornai a pensare di essere fuori di me: se tutto stava accadendo sotto non poteva che trattarsi delle cantine. Aprii la porta con circospezione, cercando di limitare il cigolio del legno massiccio sui cardini arrugginiti; mi affacciai; guardai a destra e a sinistra senza individuare forme di vita. In quell'esatto momento suonarono le campane a morto. Per la vicinanza della chiesa il rimbombo mi fece tremare ed istintivamente mi rintanai in casa. Ormai tremavo di paura e, madida, trafelata come avessi corso per otto chilometri in salita, mi detersi il sudore dalla fronte con il dorso di una mano e riaprii la porta.

   Si ripeté la medesima scena di prima e stavolta trasalii per un improvviso ululato. Non riconobbi immediatamente le tonalità di Asso, il nostro pastore tedesco molto poco coraggioso, e stavo per rintanarmi nuovamente quando finalmente lo sentii abbaiare e infine ringhiare come non mai. Anche quei versi provenivano dalle cantine. Abbrancate le forze residue, decisi di avviarmi verso le scale. Con lentezza esasperante, poggiando i piedi cercando di limitare la pressione sul solaio, mantenendo le braccia tese nel tentativo di non smuovere neppure l'aria stagnante del corridoio buio che conduce alle scale, mi diressi verso la luce fioca che ancora non mi illuminava direttamente. Quando cominciai a vedere il primo gradino, sentii un improvviso scalpiccio di qualcuno che saliva di corsa. Non ebbi neppure il tempo di girarmi e si materializzò un volto che lì per lì non riconobbi. Fui immediatamente raggelata dal grido a squarciagola e solo allora osservai i capelli discinti di mia madre, il suo seno quasi integralmente scoperto data la striminzita camicetta bianca che la stringeva come una camicia di forza. E notai che era stranamente truccata da battona che frequenta le zone portuali o quelle delle stazioni ferroviarie. Mi strinse e: «Mi hai fatto cagare sotto dalla paura! Che cavolo ci fai qui?». Trovai inutile dare spiegazioni e porre domande, giacché lei proseguì: «Avrai capito già tutto e ti sarai chiesta perché lo abbiamo fatto. Ma si poteva sputare sopra a duecentomila euro? D'altronde che abbiamo fatto di male? Stiamo solo facendo un favore all'umanità!». Il mistero per me s'infittiva sempre più, ma non potevo porre domande a quello sguardo impiastricciato di blu e nero, a quella bocca eccessivamente rossa, a quei capelli improvvisamente biondissimi, a quel seno stranamente sodo e grande come fosse retto da una impalcatura in cemento armato, a quelle gambe senza traccia dei soliti ispidissimi peli neri, inguainate in calze nere e setose, a quelle caviglie stranamente sottili ed agili su quei tacchi a spillo vertiginosi. Seguendo il mio sguardo, anche mia madre osservò la porzione di corpo che poteva vedere e: «Dimmi, ti piaccio? Hai visto che figurino? E i capelli, il trucco, il rossetto, ti piacciono? Hai visto che lacca alle unghie e come sono state perfettamente disegnate? Ah, che fortuna averli incontrati».Stavolta non seppi resistere e chiesi chi aveva incontrato, chi avesse avuto una mano così pesante nel restaurarla alla puttanesca. E lei s'incupì; poi raddrizzò le spalle, appoggiò un dito sulle labbra e, con aria complice, mi trascinò verso casa. Il suo incedere la rendeva ancora più affine alle passeggiatrici che sotto i lampioni mettono in mostra le mercanzie. E finanche la scia di profumo che lasciava dietro, l'avvicinava a quel prototipo ormai quasi estinto, essendo stato sostituito da altri generi di venditori ambulanti di mercanzia erotica da macellai: pezzi di culi, tette, labbrone, nasini, occhietti dolci, vitini da vespe, tutto retto da bicipiti allenati, glutei forzuti, polpacci da ciclisti, pomi d'Adamo, voci virili. Sostituiti insomma da quelli che vengono chiamati transessuali, che mi ricordano un poco tanti camion che transitano sull'autostrada cosiddetto del sole pure quando si blocca per la pioggia e la neve. La osservai attentamente mentre respirava a fondo e si accendeva una sigaretta mai vista prima: sottilissima e lunga. Poi mi ricordai che lei non fumava. Parve accorgersi della mia perplessità e, come leggesse nel cervello, atteggiò lo sguardo a vamp e: «Sentirai che essenze, che profumo. Questo tabacco è la fine del mondo! E ti sarai certamente chiesto da quanto tempo fumo. Da otto giorni. Bene. Adesso dobbiamo scendere a vedere come vanno le cose. Ma tu non puoi scendere così! Devi darti una aggiustatina. Ci penso io». Dieci minuti dopo mi guardai allo specchio e vidi un altro volto in cui non mi riconoscevo, avendo tutti i caratteri della battona vecchio stampo, cosicché qualche secondo dopo erano in due le simil zoccole a scendere verso i bassifondi di casa. Feci fatica a reggermi in piedi nel trovarmi di fronte un ambiente asettico, tutto cristallo, acciaio, alambicchi, siringhe, una lettiga, un lettino, luci disinfettanti. Eppure era stato l'accogliente ambiente, anche se frequentato da topi, ragni, qualche falena e scarafaggi, dove tenevo la bici, i pattini, le vecchie bambole con la testa ghigliottinata con grande piacere, i vecchi quaderni su cui avevo appuntato meravigliose e originali frasi d'amore tipo: Quando il tuo culo vedo passare sento il mio cuore palpitare. Dove anche mio fratello teneva le sue cose: bici, pattini, palloni, giornali, il suo pc antidiluviano, e cassette porno ormai sostituite da cd e file, i quaderni che pure lui usava per scrivere le sue stupende frasi d'amore tipo: Lo disse Dante lo confermò Achille è meglio una chiavata che una carta da mille. Il silenzio era dominato da un gorgoglio di acqua bollente e da un sommesso uuumm uuumm uuuummm che mi ricordava qualcosa di strano provenire dalla stanza mia e di mio fratello quando si chiudeva da dietro e non voleva che entrassi. Quella che trovavo carica di strani odori e a tende chiuse, quando finalmente apriva con gli occhi cerchiati. Di lì a qualche secondo l'ambiente era divenuto patinato, come le foto di certe donne nude appese alle pareti da mio fratello e che mi disse erano artistiche, perché le aveva fotografate Hamilton. Gli chiesi se pure Cicciolina e Moana Pozzi le avesse fotografate quel tipo. E lui grugnì.

   Poi mi accorsi che ogni particolare, i profili degli oggetti, addirittura il pavimento e il solaio, stavano sfumando; mi pareva di veder tutto smaterializzarsi davanti ai miei occhi increduli. Li strizzai, gli occhi ovviamente, infinite volte senza riuscire a mettere a fuoco le ombre che si muovevano come fantasmi privi del lenzuolo bianco nella nebbia di un cimitero. Poi le ombre mi si avvicinarono, spaventandomi non poco. Poi la paura scemò. Mio fratello, mio padre, mia madre che era già accantoa me, io, tutti nella nebbia ma finalmente identificabili. Poi si avvicinarono: I- Uno sconosciuto con una benda chirurgica, vestito di bianco, mani inguantate, occhiali che deformavano ingigantendo gli occhi.

II- Un tipo corpulento in doppiopetto scuro, coppola, sigaro in bocca, mani enormi e gonfie, pancia enorme stretta da una cinghia con fibbia metallica che lanciava sinistri bagliori argentei. La situazione mi appariva surreale, anche perché se ne stavano ancora tutti muti a guardarmi, ancora nel silenzio rotto solo dal gorgoglio di acqua bollente e dall'ormai consueto uumm uummche mi pareva si stesse facendo più flebile. Finalmente decisi di prendere in mano la situazione: «Allora, mi dite che cazzo ci fate qua o devo gridare come una scrofa un attimo prima di essere decollata e rendere l'anima al diavolo?». Sorrisi io stessa per la invenzione linguistica e rimasi sorpresa della reazione di tutti gli altri che mi ammonirono: «Zitta, zitta, non usare certe parole davanti al Presidente!».

   Dovetti spalancarli parecchio i miei occhi per la sorpresa, giacché sentii un dolore fortissimo alle palpebre. Con lo sguardo seguii il loro: si erano tutti girati verso un fagotto seduto su una poltrona di cui non riuscivo a vedere il colore. Intanto, però, quello pure aveva spalancato gli occhi e mi guardava. Mi parve di notare una invocazione di aiuto. Mi avvicinai. Era lui, era certamente lui, il Silvio. Sentii il mio cuore battere forte e saltare nel petto. Avrei voluto tanto chiedergli l'autografo, baciarlo, ma era evidentemente impossibilitato a farlo e a corrispondermi: mani legate dietro la schiena, bavaglio nero sulla bocca, corda intorno al petto che si estendeva sino ai piedi. Mi pareva fosse addirittura incaprettato. Intanto il gorgoglio era cessato e il vapore acqueo stava per essere portato via da una leggera corrente d'aria che da qualche spiffero emetteva come una musica decostruita. Per giunta dall'esterno arrivò un improvviso suono di campane che per un attimo mi parvero suonate a morto. Poi capii che erano solo i rintocchi delle ore tre. Era, insomma, quasi l'ora del cornetto del dopo discoteca. E finalmente l'uomo inguantato si avvicinò e con tono deferente: «Presidente, finalmente si è svegliato. La ringraziamo per la collaborazione che vorrà prestare, ma dovevamo farlo. Non potevamo rinunciare alle Sue potenzialità umane, politichee, perché no?, economiche. Abbiamo proceduto al prelievo del materiale genetico che ci occorre per replicarla infinite volte, per clonarla, insomma. Si renderà conto del bene che abbiamo fatto all'umanità, tanto più che nessuno ha sentito la Sua assenza: l'abbiamo sostituita con un sosia perfetto che ha portato avanti il Suo lavoro in maniera encomiabile. Sarà contento anche lei di verificare i risultati. Le cose vanno veramente bene nel mondo intero, grazie a Lei, ovviamente, grazie al Suo sosia». Contemporaneamente l'ignoto medico, evidentemente un luminare della scienza, procedette alla liberazione del Presidente, aiutato dal tipo in coppola, molto meno fine ma efficientissimo e dall'accento siculo che si limitò a dire: «Grazie, Presidente». Mio fratello, mio padre e mia madre scalpitavano in attesa di poter abbracciare quel Silvio, il vero Silvio. E finalmente lo fecero: era in piedi, mi appariva un gigante, carismatico, bello come un angelo vendicatore con la spada in mano prima dell'Apocalisse o dell'Armageddon, che fa più effetto, la nota battaglia finale tra i re della terra, incitata da Satana. E loro piegavano la testa davanti al suo sguardo imperioso e benedicente. Mia madre ebbe anche l'ardire di rivolgergli la parola, passandosi le mani sui fianchi e poi allargando le braccia come volesse attrarlo a se: «Presidente, avrà fame, sete, cosa desidera? Non dovrà fare altro che parlare e l'avrà, avrà tutto ciò che vorrà, immediatamente». Mi parve di vedere qualche turbamento nello sguardo di mio padre, che si fece un po' torvo, fino a che il Presidente non parlò e gli tornò il sorriso: «Fame, certo, prima di mettermi al lavoro dovrò pur mangiare. Si potrebbe avere un piatto di riso al pomodoro? Sa, nel pomodoro c'è il licopene…Ah, mi andrebbe anche un po' di pane e salame napoletano, che pare faccia bene per altre cose, ehm...meglio lasciar stare, si potrebbe equivocare. Può bastare, vediamo un po', un mezzo metro di salame. Grazie. E, mi consenta, buon lavoro».



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