Quella di Alfredino Rampi è una tragedia italiana, una terribile storia in cui si mescolano il meglio e il peggio di un paese capace di gesti eccelsi e di piccolezze ignobili. Una storia lunga 63 ore, che cambiò il modo di interpretare il soccorso alle vittime di incidenti,che cambiò le vite dei protagonisti della stessa, che cambiò anche la televisione.
Una storia fatta di improvvisazione, di gesta eroiche, di presappochismo, di cinismo ributtante, di generosità, in cui si mescolano persone comuni dalla statura di eroi, sciacalli è professionisti dello sciacallaggio, politici e perditempo, oscuri eroi del quotidiano.Una vicenda che inizia alle ore 19,00 di mercoledi 10 giugno 1981, nelle campagne di Selvotta, una frazione di campagna situata lungo la strada di Vermicino, sulla via che congiunge Frascati a Roma.
Il quarantunenne Ferdinando Rampi passeggia per i campi con Alfredino, suo figlio, di sei anni. Il bimbo ha una malformazione cardiaca, ma è ugualmente un bimbo vivace, solare. Le foto ce lo mostrano con un sorriso intelligente e aperto; un sorriso che sarà spento per sempre proprio in quelle maledette campagne. E’ ancora giorno quando Alfredino chiede al padre di tornare a casa; il padre acconsente, anche perchè la distanza tra il posto in cui sono e la casa di campagna dei Rampi è davvero esigua meno di cento metri.
Quando Ferdinando torna a casa, non trova il piccolo; la moglie Franca decide immediatamente di andare in cerca di Alfredino, ma le ricerche sono vane. Il bambino sembra sparito nel nulla, così i due genitori, affranti, chiamano la polizia. Per circa tre ore, gli agenti della polizia con l’aiuto dei cani battono la campagna, alle 0,30 ecco che arriva la terribile notizia. Un agente ha sentito dei lamenti provenire da un pozzo artesiano, si è avvicinato ma non ha potuto far altro che correre dai colleghi, perchè l’imboccatura del pozzo stesso è coperta da una lamiera.
Un particolare inquietante, questo, che però verrà spiegato dal proprietario del fondo, che interrogato dagli inquirenti racconta come lo abbia coperto attorno alle 21,00 di quel maledetto 10 giugno, senza sospettare che il piccolo Alfredo era là sotto. Sono ormai sei ore che il piccolo è prigioniero del pozzo, e sul posto accorrono, oltre ai genitori e agli agenti, i vigili del fuoco di Roma, allertati dalla polizia.
Il primo sopralluogo genera immediatamente paura e sgomento; il pozzo è profondo almeno 80 metri, ha un’imboccatura di 30 cm e il bambino è incastrato in una rientranza dello stesso, a circa 36 metri di profondità. Il primo dei tragici errori commessi nelle operazioni di salvataggio lo commettono proprio i vigili del fuoco, e renderà ancor più complicati i tentativi di raggiungere il bimbo. Nella fretta, i vigili calano un’asse di legno sperando che il bimbo possa aggrapparsi ad essa, ma la tavola, a 20 metri, si incastra e ottura il pozzo.
L’errore, fatale, costringe i vigili a rivedere i loro piani; decidono quindi di scavare un pozzo parallelo a quello in cui è prigioniero Alfredino, ma anche questa idea è assolutamente sbagliata. La natura del terreno, come verrà drammaticamente rilevato quando entrerà in funzione la trivella, è tale da impedire di creare un pozzo sufficiente a permettere poi una comunicazione tramite un cunicolo (cosa che avverrà, ma molto in ritardo). Purtroppo, nella concitazione manca la lucidità; a nessuno viene in mente di chiamare un geologo e accertarsi della fattibilità della cosa.
I vigili lanciano un appello tramite le tv locali per chiedere una trivella in grado di bucare il terreno; è così che poco alla volta prima Roma, poi l’Italia intera apprende la notizia della prigionia di Alfredo. Sul posto, poco prima dell’alba, arrivano anche degli speleologi del soccorso alpino; vogliono offrirsi per calarsi nel pozzo. E’ la soluzione migliore, ma al momento viene scartata.
Ancora un’errore, quindi, uno dei tanti che costelleranno questa vicenda incredibile e tragica. Mentre nell’accampamento improvvisato affluiscono vigili del fuoco, polizia, volontari, inizia un incredibile fenomeno; la diffusione della notizia via Tv porta a Vermicino migliaia di persone, per la massima parte curiosi, che finiscono per occupare tutto il terreno attorno al tragico pozzo con conseguenze facilmente immaginabili. Tutto diventa un circo Barnum rumoroso e fastidioso, finendo per ostacolare anche chi deve lavorare sul serio. A questo va aggiunta la decisione della Rai di trasmettere in diretta gli avvenimenti di Vermicino, accantonando per un attimo i problemi del paese.
Quell’estate del 1981 è densa di avvenimenti, per il paese; lo scandalo P2, le dimissioni del governo in carica e il successivo affido al primo laico che guiderà un governo italiano dal dopoguerra, il repubblicano Spadolini, il rapimento di Roberto peci da parte delle Brigate Rosse,sono notizie importanti ma passano in secondo piano davanti a quella tragedia che la tv porta in ogni casa.
Così l’intero paese si incolla davanti alla tv, in attesa di buone notizie da Vermicino. Nel frattempo nel campo accade qualcosa; Tullio Bernabei, uno speleologo, si cala nel pozzo e arriva quasi a toccare la tavoletta. Vede Alfredino e gli parla; il bambino soffre, com’è ovvio che sia, ma ha fiducia nei suoi soccorritori.
Tullio resiste 20 minuti a testa in giù, ma deve desistere, così come il soccorritore successivo; nessuno dei due raggiunge la tavoletta maledetta, che è incastrata tra la parte più larga del pozzo e quella più stretta. Sono all’incirca una decina di centimetri, ma sono fondamentali.
Pastorelli, capo dei vigili di Roma decide di non mandare più gli speleologi nel pozzo; annuncia di voler scavare un pozzo parallelo. Così la mattina del 11 giugno, alle ore 8,30 di quel giovedi convulso, la trivella entra in azione; è un tentativo che si rivelerà inutile, perchè purtroppo a nessuno è venuto in mente di accertarsi sulla natura del terreno. Intanto il paese assiste attonito alle immagini che la Rai ha registrato nella notte, che mostrano il pozzo, la mamma di Alfredino che tenta di rincuorare il bimbo e lo stesso che piange e si lamenta. Difficile immaginare una situazione più orribile, con un bambino sepolto vivo a 30 metri di profondità, con la madre che gli parla e lui che non può muoversi, prigioniero com’è in quei 30 centimetri di spazio.
La disperazione dei protagonisti è palpabile.
Alle 13,00 i telegiornali stravolgono i loro palinsesti, e diventano delle edizioni straordinarie; i problemi dell’Italia, le crisi nel mondo sono accantonate, perchè gli italiani vogliono notizie, perchè l’intero paese è stretto attorno al povero Alfredino. Nel frattempo il caos a Vermicino ha raggiunto l’apice; le migliaia di persone che si sono accalcate aggiungono confusione, togliendo lucidità ai soccorritori, anche perchè nel frattempo sono arrivati venditori ambulanti di panini, bibite…. Alle 14,00 salgono a 19 le ore di prigionia di Alfredino; la trivella lavora, ma il terreno ben presto si rivela essere roccioso. Un vigile del fuoco, Nando Broglio, parla con Alfredino, gli tiene compagnia; tra i due si stabilisce un dialogo surreale, con il piccolo Alfredino che in qualche modo dimentica il suo stato per parlare con il vigile.
Alle 21,30 viene presa una decisione importante; viene calato all’interno del pozzo Isidoro Mirabella, l’uomo ragno, che riesce solo a parlare con Alfredino, che lo implora di fare presto. Il bimbo viene alimentato con una soluzione di glucosio, grazie ad un tubicino calato nel pozzo; ma le ore passano implacabili, la trivella avanza lentamente e la disperazione sembra ormai sostituirsi alla speranza. Purtroppo il bambino alterna ormai momenti di silenzio preoccupante a lamenti; appare chiaro che la situazione sta precipitando. Venerdi mattina, poco dopo l’alba, la tragedia sembra imminente. Dalla folla ad un certo punto si alza un applauso; la trivella porta su terreno, finalmente. Sembrerebbe che abbia bucato lo strato roccioso. Così non è , e si decide allora di non scavare il pozzo per intero ma di interrompere tutto a 30 metri, in modo da scavare un tunnel di collegamento tra il pozzo in cui c’è Alfredino e quello nuovo.
Alle 19,30 i vigili abbattono l’ultimo diaframma che separa i pozzi paralleli; sembra fatta ma sta per arrivare la più cocente delle delusioni. Nel frattempo la folla si anima, perchè inaspettato arriva il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, a testimoniare in qualche modo la vicinanza delle istituzioni e del popolo italiano ad Alfredino e alla sua famiglia. La confusione è all’apice, e molti si chiedono se la visita di Pertini sia opportuna.I vigili guardano nel pozzo e non trovano Alfredino; il bambino è scivolato più giù, molto più giù. Pastorelli chiama gli speleologi e chiede loro di guardare la situazione.
Tullio Bernabei si cala nel pozzo con una torcia e vede Alfredino; con una corda misura la distanza che separa il tunnel dal bambino. La distanza è di circa 40 metri. Il che vuol dire che Alfredino è quasi sul fondo del pozzo.
Sono le 21,00 ed è chiara una cosa; l’unica soluzione è trovare un uomo magrissimo che, calato a testa in giù, riesca ad imbragare il piccolo e a tirarlo su a mano. Una cosa che doveva essere fatta da subito; ora è troppo tardi.
I due tentativi più importanti li faranno, nell’ordine, Claudio Aprile, uno speleologo, poi Angelo Licheri, un sardo ventottenne, che riuscirà ad arrivare fino ad Alfredino,il bambino è però coperto di fango, e l’eroico Licheri non riuscirà in nessun modo ad imbragarlo. Ci proverà in ogni modo, martoriandosi le carni, ma il destino vuole che Alfredino non esca più da quello che sarà il suo ultimo rifugio. Le immagini drammatiche del tentativo di salvataggio arrivano in tutte le case; gli italiani, oltre 21 milioni, guardano con ansia. A Vermicino lo scoramento è palpabile, così come il nervosismo,quando Licheri esce, stravolto, tutti si rendono conto che è finita.
L’ultimo, disperato tentativo, è affidato ad un giovane speleologo, che ha tutte le caratteristiche necessarie per calarsi nel pozzo; è giovane, ha sangue freddo, è magrissimo. Rincuorato e ringraziato dallo stesso Pertini, che lo accompagna fino al pozzo parallelo, Donato Caruso si cala nel pozzo. Sono le 5,00 di mattina, Caruso scende verso Alfredino, percorre i 60 metri che lo separano dal bambino. Inizia un drammatico colloquio tra Caruso e gli uomini che sono fuori dal pozzo, che gli chiedono notizie sul bambino.
Caruso arriva ad Alfredino, riesce anche a legarlo in qualche modo con delle fettucce, quelle usate in alpinismo, ma il destino vuole che Alfredino, coperto di fango, scivoli via da esse. E’ il momento cruciale della tragedia. Caruso si rende conto che è impossibile tirar fuori di la Alfredino, e ritorna su, sconvolto dalla fatica e dalla frustrazione. Arriva al cunicolo scavato dai vigili e avvisa gli uomini in superficie che riproverà appena si sarà riposato. Ha con se delle manette, e prova ad infilarle ai polsi del bimbo, ma non c’è nulla da fare, così, alle 7,00 del mattino di sabato 13 giugno, Caruso ritorna in superficie, sconfitto.
Porta con se anche una notizia dolorosa; il bambino non si muove più, per cui probabilmente il suo cuore malato ha ceduto. Il professor Fava, con voce mesta, annuncia alla nazione la morte presunta di Alfredino Rampi; sono passate 63 ore da quel maledetto 10 giugno, la storia si è avviata purtroppo verso il suo tragico epilogo. La mattina il campo di Vermicino si svuota, mestamente.
E’ il momento del dolore, della rabbia delle polemiche. I gravi errori commessi, come l’aver puntato sul pozzo parallelo, la tavoletta gettata nel pozzo, la scarsa fiducia data agli speleologi, gli unici che avrebbero potuto salvare Alfredo pesarono come macigni. L’improvvisazione unita all’incompetenza dovuta alla mancanza di esperienza in casi simili giocò un ruolo fondamentale; un altro elemento triste fu il circo mediatico, un vero reality show sulla morte in diretta che ottenebrò molti cervelli, con quella folla rumorosa che ostacolò in qualche modo gli aiuti, pressando psicologicamente i soccorritori che avrebbero avuto bisogno di calma e tranquillità.
Ma le polemiche, di fronte all’insuccesso, rimangono uno sterile esercizio di forma. Franca Rampi, la mamma di Alfredino, affranta, decise di fondare un’associazione che si occupasse di protezione civile e tutela dei minori, chiamandolo Centro Rampi I poveri resti di Alfredo vennero recuperati 31 giorni dopo la tragedia,l’11 luglio del 1981
Di lui restano le poche foto che mostrano il suo volto sbarazzino, la sua semplicità di bambino di 6 anni, strappato alla vita da un destino atroce. Il nostro paese non ha più dimenticato quella tragedia, e il nome di Alfredino Rampi è diventato, con gli anni, l’emblema di tutti quei bambini morti per le assurde dimenticanze dei grandi, di coloro che dovrebbero tutelarne la vita, e che finiscono per diventare, anche se solo colposamente, i loro assassini.