“Vola solo chi osa farlo” dice Sepulveda. L’industria dell’aviazione civile, colta alla sprovvista dal nuovo ordine economico mondiale, esce profondamente cambiata da questo primo decennio del nuovo millennio. L’exploit dei mercati emergenti, la recessione di quelli europei, il rallentamento di quello americano hanno mischiato le carte in tavola e costretto le compagnie aeree ad alleanze, fusioni e inedite strategie in grado di rispondere alle nuove esigenze commerciali e geopolitiche del sistema mondo. Alitalia, un po’ come il Paese che rappresenta, non è riuscita a interpretare a proprio favore il vento del cambiamento e le vicende di cronaca sulle prime pagine dei giornali non sono altro che il frutto della scarsa lungimiranza dei suoi dirigenti e dell’incapacità di investire e sviluppare con un occhio al futuro: esattamente come è accaduto per l’Italia. La connessione tra geopolitica e aviazione è saldamente intrecciata in un connubio di interessi, relazioni e scambi che continuano a giocare un ruolo di primo piano nella definizione di rotte, collegamenti e slot.
Alitalia paradigma del paese
Al di là dei tecnicismi societari attraverso i quali sarà garantito il galleggiamento dell’ex compagnia di bandiera, il problema di Alitalia resta di natura strategica. È stato lo stesso presidente dimissionario Roberto Colaninno ad ammettere errori di valutazione durante i quattro anni di gestione, post spin off. Rimettere in ordine il conto economico non è bastato per riassestare la struttura operativa della compagnia: “Sabelli si è concentrato nella generazione dei ricavi collaterali al servizio aereo con ottimi risultati – ha dichiarato recentemente Colaninno - ma poi ci siamo resi conto che la vera criticità riguardava il core business, cioè rotte e destinazioni”.
Rotte e destinazioni, appunto. Nell’immaginario collettivo l’aereo collega le destinazioni vacanziere e funge da taxi per gli uomini d’affari. Le rotte vanno monetizzate e le poltrone di business sono le sole a generare redditività: un volo pieno a tappo in economy ma vuoto in premium è comunque in perdita. Negli anni passati erano la politica e la diplomazia a garantire il profitto attraverso l’introduzione ex novo di rapporti commerciali e istituzionali, oggi è il segmento cargo a stabilire i prezzi. Trasportare e promuovere i prodotti italiani nel mondo è stata la chiave del successo della compagnia negli anni ’50 (pensiamo alla rotta FCO – LAX e al connubio tra industria cinematografica hollywoodiana e le produzioni di Cinecittà negli anni della Dolce Vita di Via Veneto) garantendone anche il consolidamento del brand come sinonimo di eccellenza e italianità. La deliberata rinuncia a questa voce della struttura operativa della compagnia ha contribuito enormemente al suo collasso.
Alitalia ha dismesso completamente la propria flotta cargo e attualmente il trasporto merci si riduce allo spazio residuo nelle pance dei propri velivoli commerciali, quello che resta dopo aver imbarcato trolley, sci e simili, per intendersi. Questo significa che le voci più importanti delle nostre esportazioni e dunque della nostra stessa economia (lusso, design, moda, cibo, microelettronica, ecc..) non possono sfruttare i passaggi della compagnia aerea del Paese per atterrare sui rispettivi mercati di sbocco, come invece accade per tutte le altre economie di scala. Il 50% del Made in Italy transita (a pagamento) da altri scali europei, tedeschi e francesi soprattutto; il restante decolla sì dall’Italia, ma su aerei dei contractors internazionali. Per questo, indipendentemente dalla soluzione che sarà individuata per l’impasse societario e finanziario di CAI, è fondamentale che il nuovo azionariato esprima una governance capace di gestire gli aspetti aziendali ma anche quelli strategici.
La discesa in campo del governo attraverso la soluzione Poste Italiane non convince perché non possiede un orizzonte temporale sufficiente per consentire di sviluppare delle strategie a lungo termine (Secondo Colaninno la collaborazione con le Poste sarebbe strategica perché, ha lasciato intendere, potrebbe presto essere possibile acquistare un volo Alitalia presso gli sportelli postali tra il pagamento di una bolletta e l’altra?). L’iniezione di capitale basterà a lasciar scorrere cherosene nei serbatoi degli aerei ma per la sua sopravvivenza Alitalia necessità di un partner internazionale solido, competitivo ma soprattutto lungimirante. Air France – KLM non soddisfa a pieno queste caratteristiche. La situazione finanziaria dei franco olandesi non è delle più rosee, un aumento della partecipazione in CAI si risolverebbe in un’ulteriore e drammatica razionalizzazione delle attività italiane a favore di quelle parigine. Senza cadere nella trappola del tiro alla fune, il Bel Paese rischierebbe di fatto di diventare una succursale di Charles De Gaulle e di Schipol, destinato a rimpinzare i velivoli dei cugini d’oltralpe e ritagliando ad Alitalia il semplice ruolo di feeder. I ventilati ingressi in Alitalia di Etihad o, perché no, di Aeroflot potrebbero invece cambiare le carte in tavola e costituire una chance di riscatto per la compagnia. Entrambe in grado di garantire denaro sonante e possibilità di penetrare con forza i mercati emergenti.
Finanza ad alta quota: fusioni e acquisizioni
Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno segnato un giro di boa senza precedenti nella storia dell’aviazione civile. Ne hanno sofferto sia le compagnie statunitensi ma anche quelle europee i cui profitti dipendono storicamente dalle rotte transatlantiche. Molte dovettero portare i libri in tribunale e accettare acquisizioni sul filo della svendita ma necessarie per sopravvivere alle mutate condizioni del mercato. Da qui anche il tentativo di matrimonio, fallito, tra la vecchia Alitalia e la vecchia KLM negli anni 2000 che, di fatto, aprì la strada alla fusione franco olandese. La necessità di ridurre i costi delle operazioni e di offrire un prodotto competitivo ma adatto alle esigenze dei nuovi consumatori, ha costretto le storiche major dell’industria a cedere a insospettabili quanto strategiche alleanze. Le fusioni, spesso anticipate da joint venture, consentono di risparmiare sul ‘ferro’ cioè sull’impiego dei velivoli, come si dice in gergo. Le compagnie mettono insieme i propri mezzi e decidono come sfruttarli in base alle necessità contingenti, con conseguenti, seppur limitati, danni all’esclusività del brand.
La scorsa estate l’autorità anti trust americana ha alzato il veto sul matrimonio tra American Airlines (già risultato della fusione con TWA) e US Airways, ma adesso sembra che il dossier sia tornato sul tavolo di Bill Baer. La strategia basata sulla costruzione di grandi alleanze globali (le varie Skyteam, One World e Star Alliance) non è bastata perché non basata sulla gestione condivisa di costi e ricavi. AMR e US sono le uniche major americane a essere per ora rimaste a bocca asciutta, ma l’unica alternativa al matrimonio resta il fallimento e il successivo acquisto di slot da parte dei big players. Per questo l’anti trust di Baer, volente o nolente, dovrà alzare la bandiera bianca. Nel Vecchio Continente è accaduto lo stesso: Lufthansa negli ultimi dieci anni ha aperto una campagna acquisti che l’ha portata a inglobare nella propria orbita Swiss e Austrian oltre che a tutta una serie di operatori regionali. Con un’operazione lacrime e sangue è andata in porto anche la fusione tra British Airways e Iberia. Alitalia è, tra le big, l’unica ad essere rimasta a terra. Impensabile la sua sopravvivenza al di fuori di una sinergia con un altro operatore.
Le fusioni nei cieli europei ricalcano anche una certa convenienza geopolitica ma soprattutto geoeconomica. Ogni compagnia ha stabilito il proprio network basandolo sulle esperienze di politica estera dei rispettivi governi. Così quello di British Airways si è rivolto soprattutto al Nordamerica, quello di Iberia all’America Latina, quello di Austrian verso i Paesi dell’Est, mentre Air France resta il vettore preferito in Indocina. Da questo punto di vista una maggiore collaborazione tra Alitalia ed Etihad consentirebbe a via della Magliana di volare su una rotta preferenziale dall’Italia al Medioriente (e da qui poi al resto dell’Asia e dell’Oceania), mercato notoriamente off limits per le compagnie non indigene.
Aviazione e geopolitica: il futuro dell’industria
È proprio in quest’ottica che continua ad esistere uno stretto legame tra geopolitica e industria del trasporto aereo. Provate a prenotare un volo per L’Avana su Expedia.com (Expedia, Inc. – Bellevue, WA – NASDAQ: EXPE): non troverete Cuba in nessun menù a tendina, ne tantomeno sulla mappa delle destinazioni. Impensabile per un cittadino statunitense volare non stop da una città americana all’isola di Castro (esistono dei voli diretti soltanto tra la Florida e L’Havana – 1 h di volo – a prezzi esorbitanti ed effettuati all’interno di logiche charterizzate). Cambiamo prospettiva ma restiamo a Cuba: scorrendo le (ormai poche) destinazioni verso cui è possibile volare dall’Avana a bordo di un volo Cubana notiamo soltanto aeroporti amici, oltre che la necessità di soddisfare esigenze regionali. Ma di Cubana colpisce anche la flotta, a maggioranza di manifattura sovietica: Ilyushin, Tupolev, Yakovlev, Antonov, nomi che non si sentivano dai tempi della guerra fredda e velivoli che la stessa Aeroflot ha quasi interamente dismesso dalle operazioni. Stessa situazione in Corea del Nord dove la compagnia di bandiera Air Koryo collega Pyonggyang soltanto con i Paesi Compagni della regione. Flotta ovviamente made in URSS. L’amicizia politica, commerciale e diplomatica tra Etiopia e Repubblica Popolare Cinese è stata ufficializzata con l’introduzione di voli non stop tra Addis Abeba e Pechino, profittevoli dal punto di vista cargo ma anche business. Sulla tratta Ethiopian Airlines impiega la sua punta di diamante, il Boeing 787, di cui è stata uno dei primi clienti.
Lo spostamento del baricentro mondiale verso Est ha avuto un immediato riflesso anche sulla geopolitica avionica. Il caso più eclatante riguarda senza dubbio le compagnie mediorientali che, grazie al facile ed economico accesso ai pozzi petroliferi, sono in grado di offrire prezzi oltremodo competitivi sulla direttrice Ovest Est. Gli hub di Dubai, Doha, Abu Dhabi e Muscat sono quasi impraticabili per compagnie europee che non abbiano attivato rapporti di partnership commerciale con i padroni di casa. Punto a favore di Alitalia che è riuscita con una certa soddisfazione a portare a casa un accordo di code sharing con Etihad che le consente di offrire comodi passaggi da Roma e Milano verso le metropoli dell’Estremo Oriente e dell’Oceania a prezzi competitivi e con un comodo stop ad Abu Dhabi. Alla luce di questo molti analisti si aspettano un ruolo più importante della compagnia mediorientale nel salvataggio di via della Magliana. L’industria del trasporto aereo fornisce un supporto strategico per la crescita dell’economia di un Paese, garantendo collegamenti con partner commerciali e proponendosi come un innovativo ente del turismo navigante. I governi dei paesi in questione hanno riconosciuto tale centralità e proceduto negli ultimi anni a colossali investimenti a sostegno dell’industria: in Cina sono stati recentemente costruiti 50 nuovi aeroporti e altrettanti saranno inaugurati entro la fine del decennio.
In Europa la situazione è radicalmente diversa come ha sottolineato Willie Walsh, CEO di British Airways e di Iberia: “I governi del Medioriente riconoscono il contributo delle compagnie aeree alle economie dei loro Paesi. In Europa siamo sottovalutati e sovra tassati. Mi piacerebbe lavorare in un ambiente che riconosca il contributo che siamo in grado di offrire alla nostra economia”. Ma la commistione tra geopolitica ed aviazione è forse ancora più evidente nel caso di Turkish Airlines. Durante una visita al quartier generale della compagnia ad Istanbul, Temel Kotil, CEO di Turkish, ci ha illustrato le ragioni del loro successo. Il governo ha scommesso con forza sulla centralità del business aeronautico per sostenere la crescita dell’economia del Paese (+5% a/a), mettendo in campo un colossale piano di investimenti che prevede, tra le altre cose, la costruzione del tanto discusso terzo aeroporto della città sulle sponde del Mar Nero, nella zona settentrionale della capitale. La disponibilità di terreno pressoché illimitata (contestata dagli ambientalisti) consentirà, parole di Kotil, di sviluppare in maniera sostanziale il nuovo scalo e renderlo più efficiente di qualsiasi altro aeroporto europeo. “Gli scali europei come Heathrow sono saturi, noi possiamo contare su inquantificabili possibilità di sviluppo, rapporti di vicinanza strategici e su una flotta all’avanguardia per offrire un servizio in linea con le richieste del mercato”.
Il numero di passeggeri è destinato a crescere sempre di più e per questo il presidente di Turkish è convinto che il baricentro dell’aviazione sia destinato a spostarsi in Turchia, ponte ideale di collegamento tra Ovest ed Est ma anche mercato economico in piena fase di espansione. Lungimirante la strategia adottata dall’australiana Qantas che, invece di soccombere alla concorrenza, ne ha tratto un’opportunità. Le operazioni congiunte degli australiani e degli arabi di Emirates hanno dato vita a un’alleanza strategica attraverso la quale dal Nuovo Mondo è possibile raggiungere qualsiasi città europea con un solo scalo tecnico a Dubai. Bene anche le joint ventures atlantiche delle major europee, ora è però necessario guardare all’Asia. E Alitalia? Fiumicino per ora resta a guardare, tergiversando su soluzioni di breve e medio termine che garantiscano il proseguimento delle operazioni di routine, ma il tempo stringe e la torre di controllo potrebbe ritirare l’autorizzazione al decollo e costringere gli aerei nelle piazzole di sosta.