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All’erta

Da Marcofre

Se si detesta sé stessi, la vita, tutto quello che abbiamo attorno a noi proprio in questo momento ci indigna e schifa. Si può provare rabbia, delusione per come si è, per quello che se ne è andato, che abbiamo sprecato o ci è stato tolto.
L’astio o l’odio non sono dei buoni ingredienti per chi desidera scrivere. Caricano la parola di un peso che non l’aiuteranno mai a camminare verso la direzione migliore.

Non solo.

L’odio e l’astio impediscono di vedere con la dovuta nitidezza i momenti che viviamo adesso; e che possono contenere una perla. Altrimenti il rischio è sempre quello di attendere (invano) il grande evento, la grande storia, perché quello che abbiamo a portata di mano è mediocre, non adatto al nostro grandioso progetto.

Ci si creda o no (ma è meglio crederci), persino in una giornata piatta e inutile, sprofondati in un lavoro inutile da 1000 Euro al mese accade che si verifichi per pochi istanti un momento importante. Si apre, e si chiude: a noi la capacità (il talento) per non lasciarlo andare a fondo.

Quello che è importante spesso è piccolo: come il respiro. Possiamo essere quello che vogliamo, possedere di tutto e di più, ma alla fine è a lui che dobbiamo la nostra presenza qui, adesso.

Solo dopo che diventiamo consapevoli della forza della parola, e di ogni virgola che mettiamo, la nostra attenzione si affina. Allora, si comincia a stare all’erta.

La buona narrativa non si nutre (solo) di grandi storie o avventure incredibili. La “novità” di questi ultimi decenni è che anche le erbacce hanno dignità. Spesso si preferisce scrivere di personaggi e vicende degne. Ma se la parola esiste, forse (forse) esiste per celebrare coloro che sono dimenticati. Ecco allora certe storie dove non succede niente, perché i personaggi tirano a campare.

E il sopracciglio del lettore si alza, chiede il senso, lo scopo di quella bizzarra storia. Perché lui legge, che cavolo, e lì invece non succede niente. Sul più bello, zac, finisce tutto. E lui, che diamine, ha pagato, e quello che riceve in cambio non è una storia, ma una faccenda che “si interrompe”. Eh, la bella letteratura di una volta che non lascia sgomenti. A parte che “Delitto e Castigo” lascia sgomenti eccome, e se si chiude quel romanzo senza stupore e disagio, forse c’è qualcosa che non va in noi, non certo nell’autore.

La mia idea è che diventa persino “facile” cogliere quello che la vita ci offre; il difficile viene dopo, quando occorre scrivere. Ma come si sa, quello è un cammino solitario e personale che arriva da qualche parte se c’è del talento.

Comunque vada a finire, immagino che si diventi persino delle persone migliori. Se per puro caso si possiede del talento, siamo nella giusta posizione per arrivare a scrivere delle storie capaci di ricordare al lettore chi è davvero.


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