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La guerra più lunga della storia americana, durerà ancora un altro decennio (almeno), secondo un accordo siglato tra gli Stati Uniti e il nuovo governo afghano. Le truppe statunitensi (e quelle della missione Nato), non dovranno ritirarsi dall'Afghanistan a fine anno, ma resteranno fino al 2024.
E così Barack Obama, eletto presidente nel 2008 anche (e soprattutto) sull'ondata del sentimento anti-guerra americano, l'uomo che aveva assicurato la chiusura di tutti i fronti in cui il suo esercito era impegnato, e che era stato incensato dal mondo e premiato col Nobel della Pace, lascerà la Casa Bianca più o meno come l'aveva trovata – forse anche peggio – sotto il punto di vista dell'impegno militare.
Il patto siglato martedì, prevede che gli Stati Uniti possono continuare ad utilizzare alcune basi in Afghanistan, tra cui Bagram, Jalalabad e Kandhar. Basi che hanno un compito molto più importante dell'ospitare le truppe americane (che per lo più si trovano a Kabul, Mazar-i-Sharif, Herat, Helmand, Gardez e Shindand): è infatti da queste che vengono “gestiti” i droni che colpiscono i Taliban nelle aree tribali del Pakistan. E, come noto, la Casa Bianca ritiene il controverso uso dei veicoli senza piloti, impiegati a lungo anche in Yemen e Somalia, la migliore delle soluzioni possibili nella lotta al terrorismo nel mondo – l'ultimo degli attacchi, il 24 settembre, ha ucciso 10 presunti militanti, anche se fonti locali pakistane hanno fatto sapere che sarebbero stati colpiti anche dei civili.
Lunedì prossimo, inizia la quarta stagione di “Homeland”: nella prima puntata della serie (occhio che nelle prossime righe c'è uno spoiler!) la protagonista Carrie dà l'ok a un attacco drone su un edificio in cui si sarebbe dovuto nascondere un presunto leader terrorista. L'attacco va male, muoiono molti innocenti, e tutti i nuovi episodi saranno pieni di rifermenti e flashback sulla vicenda. Tanto per capire quanto l'opinione pubblica possa essere sensibile ai “killer volanti computerizzati” tanto cari a Obama. Il pacifista, o più o meno.
Ma quello afghano non è l'unico teatro di guerra in cui le forze americane potrebbero essere impegnate a lungo. Analisti e esperti, concordano che il piano con cui la Casa Bianca sta portando avanti le missioni contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq, ha una proiezione di lunga durata. Lo stesso capo di stato maggiore Dempsey, così come altri generali americani, hanno ammesso che per sconfiggere il Califfo serviranno anni. Almeno otto i mesi che l'Arabia Saudita impiegherà nella formazione militare dei ribelli siriani “amici”, che dovranno fare da fanteria contro il Califfo. Poi sarà necessario testarli per un po' sul campo, e vedere se il training – e la fiducia – sono stati un buon investimento. Se no, serve necessariamente un piano B.
Non è detto, dunque, che dai raid aerei non si possa passare alle più impegnative attività via terra. Ci sono già segnali sull'andamento della programmazione in questo senso, e di mezzo si è messa pure la Turchia.
Il presidente Erdogan, nel discorso con cui ha chiesto al Parlamento la disponibilità all'azione militare, ha chiarito che non si può pensare di sconfiggere il Califfato, solamente lanciandogli delle bombe in testa. Serve un impegno prolungato, e via terra.
Ma la Turchia non si prepara semplicemente a seguire la coalizione internazionale, bensì cerca di spostarne gli equilibri verso una sorta di “soluzione turca” della crisi regionale, includendo come condizione imprescindibile la caduta di Assad.
Già sei mesi fa, erano uscite su internet delle intercettazioni fatte dentro il ministero degli Esteri turco, in cui l'allora ministro Ahmet Davutoglu (l'attuale premier) e il capo dei servizi segreti Hakam Findan, parlavano di organizzare un falso attacco alla tomba di Suleyman Shah – enclave turca, 30 km dentro il territorio siriano – per creare un casus belli e intervenire militarmente in Siria. Ora non servono azioni false-flag, visto che la tomba del nonno di Osman I – fondatore dell'Impero Ottomano, tanto caro a Erdogan – è assediata dai soldati del Califfato e girano già foto con i cancelli imbrattati da scritte pro-IS.
Ankara aveva inviato un piccola unità di forze speciali a presidiare il mausoleo qualche mese fa: adesso, con gli uomini del Califfo alle calcagna, sarà difficile che il governo lasci i suoi soldati da soli. Il rischio è di ripetere una “nuova Mosul” – dove in giugno i diplomatici turchi furono presi in ostaggio dall'IS e rilasciati solo qualche giorno fa –, stavolta annunciata, e creare un caso politico.
L'ingresso in guerra della Turchia, se da un lato permette un rinforzo alla coalizione – anche con l'apertura dell'importante base nucleare di Incirlick – potrebbe pericolosamente comportare la rottura di diversi equilibri regionali. L'Iraq – che continua a mantenere un filo diretto con Teheran – ha già dichiarato che non accetterà sul proprio territorio azioni condotte da altri altri paesi arabi (ivi compresi i “cinque” che stanno affiancando gli USA). E pure Damasco, si sa, ha rapporti molto travagliati con i turchi.
Insomma, oltre all'Afghanistan, si riapre anche un altro fronte per Obama: quell'Iraq di cui la “ritirata” fu vanto dell'Amministrazione, rischia di diventare un pantano geopolitico lungo anni.
Di nuovo – e stavolta con l'aggravante siriana allegata.
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