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Alla (ri)conquista dell’Artico

Creato il 08 ottobre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Simone Vettore

Alla (ri)conquista dell’Artico
L’articolo è anche disponibile come Research Paper – scarica qui gratuitamente

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Nell’immaginario collettivo l’Artico viene raffigurato come una sterminata massa di ghiacci, poco o nulla antropizzata, uno degli ultimi luoghi incontaminati del globo e come tale da preservare dalle numerose minacce che rischiano di sconvolgere in modo irreparabile il suo delicato ecosistema, si tratti del ben noto fenomeno del riscaldamento globale [1] o dei numerosi progetti di sfruttamento del ricco sottosuolo.

In verità questa immagine corrisponde solo in modo parziale alla realtà; difatti, seppur senza la rilevanza ricoperta da altre aree geografiche, all’Artico va riconosciuta perlomeno sin dall’epoca moderna una crescente importanza geoeconomica e geopolitica.

Nel XVI e nel XVII secolo, ad esempio, pescatori scandinavi (ma anche olandesi) si avventuravano nelle sue gelide acque a caccia di balene oppure ancora di banchi di aringhe; contemporaneamente cacciatori europei si avventuravano negli sperduti arcipelaghi dell’artico canadese, in Groenlandia, nelle Svalbard (o Spizbergen in tedesco) o ancora nelle remote isole a nord della Siberia in cerca di pellicce pregiate. Si trattava, con tutta evidenza, di un’economia povera ma fondamentale per la sussistenza delle comunità che vi si dedicavano e, soprattutto, ben integrata nei circuiti commerciali del tempo [2]; dal punto di vista politico, invece, la situazione sarebbe rimasta a lungo molto fluida (come si vedrà più avanti, la considerazione è per molti aspetti tuttora valida): in assenza di insediamenti umani stabili, spesso la dichiarazione di sovranità di questo o quello Stato su questa o quell’isola era più nominale che effettiva.

Sono i progressi tecnologici connessi alla Rivoluzione Industriale a far fare lo scatto di qualità, in termini di rilevanza sullo scacchiere globale, all’intera regione: difatti anche l’Artico, al pari delle altre aree della Terra, diviene una superficie da esplorare, studiare, mappare e – se possibile – colonizzare e sfruttare economicamente. All’interno di questo quadro generale va comunque rilevata una differenza sostanziale tra le numerose spedizioni, che potremmo ancora ascrivere ad una fase pionieristica, volte a raggiungere il Polo Nord geografico e che vanno lette anche e soprattutto come manifestazioni del nazionalismo otto-novecentesco (nel quale il singolo esploratore, con il suo coraggio e la sua intrepidezza, diviene il campione dell’intera Patria, con i rispettivi governi nel ruolo di finanziatori o comunque di osservatori tutt’altro che disinteressati [3]), e quelle dei decenni successivi: con la II Guerra Mondiale e, a seguire, con la Guerra Fredda, concrete esigenze strategiche e militari, ancor prima che economiche, diventano prioritarie.

In particolare nel corso del secondo conflitto mondiale, a supporto diretto delle operazioni navali in corso nell’Atlantico settentrionale e nel Mare di Norvegia (ed in generale delle operazioni terrestri nello scacchiere europeo), ebbe luogo una singolare “guerra meteorologica” che vide contrapporsi tedeschi, norvegesi, inglesi, russi e statunitensi; piccoli gruppi di soldati e scienziati di queste nazioni si fronteggiarono in una sorta di “guardie e ladri” per l’installazione di stazioni meteo capaci di rifornire i rispettivi comandi di queste vitali informazioni [4].

Durante la Guerra Fredda, poi, l’importanza della regione artica e subartica crebbe in misura esponenziale: la rotta polare, per la sua brevità (meno tempo di percorrenza e quindi meno preavviso concesso al nemico), diveniva quella principale attraverso i quali sarebbero transitati i missili intercontinentali (ICBM) dotati di testata nucleare (venissero questi lanciati da silos o da sottomarini nucleari) destinati a colpire le città statunitensi e dell’Unione Sovietica. Conseguentemente i territori dell’Alaska e della Groenlandia da una parte, quanto gli arcipelaghi russi della Terra di Francesco Giuseppe, della Novaja Zemlja, della Severnaya Zemlja dall’altra, si riempirono non solo di stazioni radar dedicate ad individuare eventuali missili in arrivo e di lanciare l’early warning ai rispettivi comandi, ma anche di velivoli dedicati al controllo del traffico aereo, alla caccia antisom, di bombardieri strategici, etc. [5].

Il perdurare della minaccia nucleare, seppur remota rispetto ai tempi della Guerra Fredda, ha fatto sì che alcune di queste basi abbiano mantenuto sino ai giorni nostri l’operatività [6], magari un po’ degradata. A cosa si devono dunque, a parità di minaccia militare (a ben guardare infatti non è che molto sia cambiato negli ultimi 10 – 20 anni ed anzi le minacce missilistiche provengono da tutt’altra parte), i ripetuti annunci, specialmente da parte russa, di ritorno in forze nella regione [7], al punto che da più parti si paventa la “(ri)militarizzazione dell’Artico”?

Le motivazioni sono in grande misura di natura economica: come ricordato all’inizio di questo articolo, l’Artico fa gola a molti e non solo per la caccia alle balene o lo sfruttamento delle risorse ittiche (attività che rappresentano una costante nell’arco dei secoli) ma in virtù 1) delle ricchissime risorse di gas naturale e di petrolio (ed in generale di altri minerali) dei quali si vorrebbe avviare lo sfruttamento così come 2) dalle concrete prospettive di aperture di nuove rotte commerciali.

Il condizionale, specialmente per quanto riguarda il primo punto, è d’obbligo in quanto lo status giuridico della zona non è del tutto definito. Preliminarmente dunque si ritiene il caso di affrontare l’argomento dal punto di vista politico addentrandoci solo in un secondo momento sulle implicazioni geoeconomiche e strategiche.

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Dal punto di vista politico-amministrativo l’Artico è suddiviso tra gli Stati che a vario titolo vi si affacciano: Canada, Danimarca [8], Federazione Russa, Finlandia, Islanda, Norvegia, Stati Uniti e Svezia. Questi Stati cercano di regolamentare le questioni inerenti alla regione, circa aspetti quali la tutela della biodiversità, il rispetto delle popolazioni indigene, la preservazione dell’ambiente di fronte alle sfide poste dai cambiamenti climatici e non da ultimo il suo sviluppo socio-economico in modo sostenibile, attraverso un apposito Consiglio Artico sorto sulle basi della Dichiarazione di Ottawa del 1996.

Il Consiglio Artico si riunisce con cadenza biennale con rappresentanza a livello di Ministri degli Esteri; l’ultimo meeting si è svolto il 15 maggio 2013 a Kiruna, in Svezia. Tra le altre cose vi è stato approvato, nascosto in mezzo alle formule di rito della dichiarazione finale, l’avvio dell’Arctic Maritime and Aviation Transportation Infrastructure Initiative la quale ha il preciso scopo di “migliorare le condizioni economiche e sociali” dell’area e si sostanzierà, almeno inizialmente, in “un’analisi comparativa delle infrastrutture portuali ed aeroportuali degli Stati Artici, incoraggiando gli sforzi continui tesi ad identificare le opportunità di sviluppo ed uso di infrastrutture complementari” [9].

Al di là dell’apparente concordia e dei buoni propositi, risulta dunque evidente come il potenziamento delle infrastrutture sia propedeutico ad un maggiore sfruttamento delle risorse presenti nonché a fungere da supporto all’apertura di nuove rotte commerciali.

La “corsa all’Artico” del resto è già iniziata e particolarmente attiva risulta essere, come si è avuto modo di anticipare, la Russia. Il modus operandi di quest’ultima è assai tradizionale, trattandosi del consueto mix di missione scientifica, militare e d’affari; in particolare l’obiettivo di Mosca è dimostrare che la dorsale di Lomonosov, una sorta di catena montuosa sottomarina che si snoda per circa 1.800 Km dalle isole della Nuova Siberia fino all’isola di Ellesmere (nell’arcipelago artico canadese) attraversando il Polo Nord, rappresenta una continuazione della propria placca continentale. Se ciò fosse provato la Russia, in base al diritto internazionale (e nello specifico alla Convenzione dell’ONU sul Diritto del Mare del 1982), potrebbe estendere ulteriormente, rispetto alle 200 miglia nautiche attualmente garantite, la zona nella quale poter sfruttare le risorse energetiche, arrivando peraltro ad inglobare lo stesso Polo Nord geografico [10]. Naturalmente il Canada non è dello stesso avviso ma la Russia, con un gesto dall’elevata carica simbolica, nel 2007, a coronamento di una spedizione scientifica denominata “Arctic 2007”, ha spedito due batiscafi, con a bordo tre membri di equipaggio ciascuno, a ben 4.500 metri di profondità in corrispondenza del Polo Nord dove si è provveduto ad impiantare la propria bandiera nazionale [11].

Naturalmente al di là del gesto “unilaterale”, non c’è alcuna ripercussione giuridica; al contrario la via da percorrere rimane quella, classica, dell’accordo bi-multilaterale: se n’è avuta una prova in occasione dell’accordo con il quale Russia e Norvegia hanno delimitato, nel 2010, i rispettivi confini marittimi nel Mare di Barents [12]. Probabilmente negli anni a venire, parallelamente all’inasprimento della “corsa all’Artico” causata anche dall’ingresso di nuovi player nell’area (i nuovi osservatori permanenti del Consiglio Artico sono al momento i principali “indiziati”), assisteremo ad un moltiplicarsi di questo tipo di accordi.

Ma veniamo ora ad analizzare in maggior dettaglio quelle che sono le attuali prospettive derivanti dall’apertura delle due nuove rotte artiche, ovvero il mitico “passaggio a Nord-Ovest” (invano cercato da generazioni e generazioni di esploratori, da Giovanni e Sebastiano Caboto a Baffin ed Hudson fino a Franklin) e la non meno importante Via Marittima Settentrionale.

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Iniziamo dal passaggio a Nord-Ovest, vale a dire la rotta che si snoda a nord di Alaska e Canada e che mette in collegamento i settori settentrionali del Pacifico e dell’Atlantico bypassando il canale di Panama. Il primo transito esclusivamente commerciale è attualmente in corso: il mercantile Nordic Orion nel momento in cui si scrivono queste righe è infatti in navigazione al largo della Groenlandia ed è atteso a giorni nel porto finlandese di Pori dopo essere partito il 17 settembre da Vancouver; secondo la società armatrice, la Bulk Partners, il risparmio è quantificabile in quattro giorni di navigazione, pari a 1500 miglia nautiche, e 200mila dollari. La stessa società si è affrettata a specificare che l’attraversata non sarebbe stata possibile senza il forte supporto del governo canadese, il quale ha messo a disposizione una nave rompighiaccio di scorta (che costa approssimativamente 50mila dollari al giorno) ma l’auspicio è che, negli anni a venire, complice l’ulteriore ritirata dei ghiacci e la creazione di una migliore rete di supporto logistico, tali costi “in sicurezza” calino sensibilmente [13]. Ciò che traspare in maniera evidente dalla vicenda è il ruolo attivo assunto dal governo di Ottawa per promuovere una rotta che si pone in competizione diretta (ovviamente dipende anche da porto di partenza e di arrivo) con quella sponsorizzata da Mosca, vale a dire la Via Marittima Settentrionale (o passaggio a Nord-Est).

Diversamente dalla prima, questa rotta è assai più rodata: già nel 2010 quattro mercantili avevano seguito questo itinerario, cifra che nel 2011 è salita a 34 e nel 2012 a 46; le previsioni sono per un ulteriore, rapido incremento, in virtù di tempi di percorrenza ridotti di 10 – 15 giorni (pari a circa 3900 miglia nautiche) rispetto alla tradizionale rotta passante per Suez e soprattutto di una migliore (in termini relativi si intende) infrastruttura logistica rispetto alla concorrente rotta nord-americana. Le citate basi militari russe infatti, che non a caso sono distribuite dal punto di vista geografico lungo l’intero tragitto, possono svolgere il duplice ruolo militare – civile in missioni SAR (search and rescue), di supporto alla navigazione (con i loro radar), di sorveglianza e di pattugliamento, etc.

L’ambizione di Mosca dunque, neppure tanto velata, è quella di ergersi a “main sponsor” e garante, anche militare, della nuova rotta commerciale (indicative in questo senso le manovre navali svoltesi nella tarda estate al largo delle isole della Nuova Siberia). Peraltro va detto che tale “protezione” si renderebbe ancor più necessaria, agli occhi del Cremlino, in quanto tra le merci trasportate non vi sarebbero solo i prodotti manifatturieri provenienti dall’Asia e diretti ai mercati europei ma anche navi cisterne cariche di gas liquefatto (ed in prospettiva petrolio) estratto dai nuovi giacimenti che colossi come Gazprom contano di iniziare a sfruttare [14].

Alla luce di quanto sin qui esposto tentiamo di trarre alcune giocoforza provvisorie conclusioni. In effetti, nonostante l’estrema cautela che si deve usare in questi casi (l’esperienza infatti insegna che le stime, allorquando si devono attrarre ingenti investimenti, sono formulate per eccesso), tutto lascia pensare che effettivamente l’apertura delle rotte artiche e l’accesso alle risorse della regione avrà notevoli ripercussioni su scala globale.

In particolare se le voraci economie asiatiche dovessero confermare la loro politica di diversificazione in primo luogo delle fonti di approvvigionamento energetico ed in generale delle rotte attraverso il quale transitano le loro importazioni ed esportazioni [15], a risentirne doppiamente sarebbe l’area del Vicino e Medio Oriente.

Le ragioni sono lampanti: la perdita, da parte delle petromonarchie del Golfo, di una quota, difficile da quantificare con precisione in questo momento ma sicuramente significativa, delle forniture globali di petrolio e gas naturale porterebbe inevitabilmente anche ad una diminuzione del loro peso politico sullo scenario internazionale (sia perché le economie industrializzate dipenderebbero meno da esse, sia perché, diminuendo il fiume di petroldollari a loro disposizione, si ridurrebbero pure i vari finanziamenti a scuole coraniche, charity e movimenti vari che spesso e volentieri portano avanti finalità politiche). A contribuire ulteriormente al calo d’importanza della regione sarebbe poi, ovviamente, il “declassamento” di Suez da principale rotta tra l’Estremo Oriente e l’Europa a semplice alternativa, evento che avrebbe sicure conseguenze su molti attori regionali [16]. È fuor di dubbio che, alla luce della pirateria oramai endemica nel Corno d’Africa (ma anche nello Stretto di Malacca), con i conseguenti maggiori costi in termini di assicurazioni, protezione dei mercantili, etc., armatori e spedizionieri di tutto il mondo non potrebbero che vedere con favore la comparsa di una via più sicura, e peraltro più breve.

Riflessioni analoghe possono essere fatte per quanto riguarda il Passaggio a Nord-Ovest: sicuramente diminuirebbe l’importanza del canale di Panama ed, insieme ad esso, quella (di per sé non elevata) dei numerosi staterelli dell’America istmica. Proprio per questo motivo, ponendosi ora nella prospettiva di Washington, non è da escludere una sorta di riposizionamento dal proprio backyard caraibico in favore della “nordica” Alaska. Probabilmente, comunque, il principale beneficiario della nuova situazione sarebbe il Canada, il quale di colpo si verrebbe a trovare, da Stato relegato dai ghiacci qual è, a controllore di una importante via di comunicazione. E questo senza contare le opportunità derivanti dallo sfruttamento di nuovi ricchi giacimenti minerari.

Alcune considerazioni, da ultimo, relativamente alle ripercussioni sul Mare Nostrum: probabilmente è eccessivo scomodare il “classico” precedente storico del XVI e XVII secolo, allorquando le grandi scoperte geografiche provocarono il progressivo ma costante trasferimento dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico (anche se questo fenomeno, alla luce dei più recenti studi di storia economica, non fu drastico e traumatico come raccontato da buona parte della storiografia) ed il contestuale ulteriore spostamento del baricentro dei centri di potere verso il Mare del Nord. Ciò nondimeno, comparando i flussi commerciali transitanti per il Mediterraneo con quelli che, verosimilmente, prenderanno le nuove vie, viene quasi spontaneo ritenere che al nostro bacino toccherà un ruolo quanto meno residuale.

Insomma, grandi cambiamenti e grandi sfide potrebbero presto profilarsi all’orizzonte.

* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)

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[1] Non è questa la sede per discettare se le cause di questo fenomeno vadano fatte risalire all’attività umana o altro; quel che qui conta è l’evidenza del fenomeno (che emerge in maniera incontrovertibile dall’analisi delle serie storiche delle temperature registrate) e, soprattutto, le sue conseguenze concrete, ovvero lo scioglimento dei ghiacci e, di conseguenza, la praticabilità di nuove rotte commerciali e come accennato sopra l’avverarsi di condizioni ambientali tali da consentire un più agevole sfruttamento degli estesi giacimenti presenti (soprattutto petrolio e gas).

[2]  Si pensi, di nuovo, ai barili di alici sottosale distribuite dagli olandesi praticamente in tutta Europa.

[3] Ad esempio la spedizione Nobile – Amundsen del 1923-24 (dirigibile Norge), che stabilì il primato del primo sorvolo sul Polo Nord, vide il Governo italiano in qualità di finanziatore con una quota del 25%.

[4] Si legga il dettagliatissimo articolo di A. Rosselli, La guerra metereologica 1940-45. I tedeschi, giusto per capire le vastità degli spazi interessati, installarono stazioni meteo in Groenlandia (dove realizzarono anche punti di rifornimento per gli u-boote), nell’isola di Jan Mayen (posta all’incirca al crocevia tra Norvegia, Islanda e Danimarca), alle Svalbard e persino nella sperduta Terra di Francesco Giuseppe, a nord della Novaja Zemlja; gli Alleati dal canto loro risposero punto su punto, occupando in particolare Groenlandia, Far Oer (nominalmente possedimenti della Corona danese, ma come noto la Danimarca era stata invasa dalle truppe germaniche) ed Islanda (isola vitale per proteggere le rotte mercantili passanti per l’alto Atlantico e punto di sosta privilegiato per i convogli che effettuavano l’attraversata transatlantica). Le norvegesi Svalbard, invece, passarono ripetutamente di mano.

[5] Dato l’isolamento dei luoghi i sovietici fecero molto di più: in particolare la Novaja Zemlja, il cui territorio presentava una elevata densità di basi, fu utilizzata a lungo come poligono nucleare; il cosmodromo di Pleseck poi, nella regione di Arcangelo, oltre che per il lancio di vettori spaziali e satelliti, era un sito di lancio per ICBM. Attualmente vi si svolgono pure test sperimentali.

[6] È il caso di quella di Thule (Peterson AFB), realizzata dagli Stati Uniti in Groenlandia nell’ambito degli avvenimenti relativi alla II Guerra Mondiale sopra descritti, oppure di quella russa (e prima sovietica) di Nagurskoye (nell’isola Terra di Alessandra, nell’arcipelago della Terra di Francesco Giuseppe). http://www.peterson.af.mil/units/821stairbase/index.asp e M. Schepp ; G. Traufetter, Riches at the North Pole: Russia Unveils Aggressive Arctic Plans,. Ovviamente molte altre basi sono state dismesse.

[7] Il Presidente russo Vladimir Putin ha di recente annunciato, ad esempio, il ritorno stabile sull’isola di Kotelnyj, nell’arcipelago della Nuova Siberia. Vedi A. Scott, La Russia dopo 20 anni torna sull’Artico con una base militare.

[8] Il Regno di Danimarca è presente attraverso la Groenlandia, la quale costituiva una sua contea (amt) d’oltremare fino al 2008, anno in cui, a seguito di apposito referendum, il suo status giuridico è diventato quello di nazione costitutiva.

[9] A Kiruna è anche stato deciso, “al fine di rafforzare il Consiglio stesso”, l’ingresso di Cina, Corea del Sud, India, Italia, Giappone e Singapore in qualità di osservatori permanenti. Il testo integrale della dichiarazione è scaricabile a questa pagina: http://www.arctic-council.org/index.php/en/document-archive/category/5-declarations.

[10] Va infatti sottolineato come, diversamente dall’Antartide, non esista una massa continentale artica; le epiche spedizioni terrestri per raggiungere il Polo Nord, in altri termini, sono state possibili solo perché le acque a quelle estreme latitudini sono perennemente ghiacciate.

[11] Vedi R. A. Lovett, Russia Plants Underwater Flag, Claims Arctic Seafloor.

[12] Vedi M. De Bonis, Mosca e Oslo finalmente divise. L’accordo, peraltro, prevedeva l’effettuazione di prospezioni offshore congiunte.

[13] Vedi C. Dawson, Cargo Ship carves a Path in Arctic Sea.

[14] Vedi A. Scott, Materie prime e rotte marittime. Cina, India e Giappone si affacciano sul risiko dell’Artico.

[15] La ricordata ammissione di Cina, Corea del Sud, Giappone, India e Singapore in qualità di osservatori permanenti in seno al Consiglio Artico non dovrebbe lasciare dubbi riguardo all’esistenza di questa volontà.

[16] Si pensi all’Egitto: la terra dei faraoni ha fondato, in assenza di risorse naturali, il proprio status di potenza regionale e di partner strategico dell’Occidente proprio sul suo ruolo di “gendarme” del Canale di Suez. Quali conseguenze potrebbero derivare, negli equilibri interni e regionali, dal venir meno di tale funzione?

Photo credit: Shutterstock; Philippe Rekacewicz/Cartografare il presente; The Arctic Institute.

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