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Alle radici dell’antisemitismo. La diversità che fa paura.

Da Psychomer
by Arianna Motteran on febbraio 6, 2012

Da pochssimo abbiamo lasciato alle nostre spalle un giorno come il 27 Gennaio. In questa data le testate giornalistiche si riempiono di foto sulla “shoah” per ricordare i milioni di ebrei deportati nei lager e brutalmente uccisi.

La giornata della memoria riporta a galla tutto il dolore vissuto, le ingiustizie commesse e l’odio nascosto dietro alla parola “razzismo”. In nome di quest’ultimo l’uomo riesce a trasformarsi in un mostro, azzerando il rispetto della persona che la civiltà dovrebbe portare con sé. Nonostante l’olocausto rappresenti la conseguenza più estrema del razzismo e al tempo stesso il peggio che l’umanità può arrivare a fare, c’è ancora chi fonda la sua politica e il suo credo sulla presunta superiorità della propria “razza”.

È inevitabile che la discriminazione dello straniero, ovvero di colui che appartiene ad un’altra etnia, richiami alla mente l’idea hitleriana di “non uguaglianza” tra le razze, la quale sostiene che quest’ultime siano differenti in relazione alle loro capacità di diventare civili. Per Hitler esiste un’unica razza capace di produrre cultura e civiltà: gli Ariani, che lui descrive come “una razza superiore, una razza di padroni, che avrà i mezzi e le disponibilità di tutto il mondo” (1925).

Hitler, però, non ha preso coscienza del fatto che non esistono razze diverse, ma un’unica razza e tante etnie. La sola razza esistente è quella umana (“Dichiarazione sulla razza e pregiudizi razziali”, 1978) eppure, ancora adesso, persino le emittenti televisive, i giornali, le radio continuano erroneamente a parlare di razze. Probabilmente, agli occhi dei più, si tratta di una sottigliezza, ma a mio avviso è un punto fondamentale nell’accettazione dell’Altro. È basilare per prendere atto che siamo diversi – giacché apparteniamo a diverse etnie – ma uguali in quanto parte della stessa razza umana. Significa affermare che siamo tutti uguali per struttura fisica e funzionamento cerebrale, ma contraddistinti da sfumature e caratteristiche peculiari come il colore della pelle, il colore degli occhi o la loro forma. Dicendo questo, si arriverebbe a mettere sullo stesso piano il colore della pelle e il colore degli occhi. E chi potrebbe discriminare qualcuno solo perché non dotato di occhi azzurri?

Circa 70 anni fa, è successo. Qualcuno è stato capace di convincere le masse che esiste un popolo migliore degli altri, un popolo eletto, un popolo capace di dominare sugli altri perché “puro”. A causa di una supremazia campata in aria, sono morti 5 milioni di ebrei (e forse più), senza contare cristiani, omosessuali, zingari, oppositori politici, portatori di handicap, malati mentali e tutti coloro che venivano considerati “diversi” dal modello di perfezione incarnato dal prototipo tedesco.

La politica e l’ideologia filonazista ha considerato – e considera – la diversità un difetto e perciò qualcosa da temere e da eliminare. L’obiettivo era quello di raggiungere l’omogeneità, togliendo all’uomo la sua principale ricchezza: la diversità; senza di essa, infatti, l’essere umano si riduce ad una creatura banale, frutto di produzioni in serie.

Nel momento in cui la diversità viene temuta, si parla di “xenofobia”, la quale rende diffidenti nei confronti del soggetto e dà avvio ad un processo di allontanamento e “di rifiuto dell’altro” (Delle Donne, 1993). Rifiutare l’altro perché diverso, fa capire che l’antisemitismo, o comunque, la discriminazione verso le diversità non sono una pagina di storia chiusa e archiviata. Se vogliamo che lo sia davvero, l’unica cosa da fare è cogliere il significato più profondo di simili episodi, ovvero non “Non temere (e rifiutare) ciò che non conosciamo e che consideriamo diverso da noi” (G. Cicogna, 2012).

 


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