Magazine Opinioni

Ambizioni e incognite della politica estera saudita in Medio Oriente

Creato il 18 febbraio 2016 da Bloglobal @bloglobal_opi

arabia-saudita-medio-oriente

di Giuseppe Dentice

Durante l’annuale appuntamento della Conferenza internazionale sulla Sicurezza di Monaco di Baviera (10-12 febbraio), Stati Uniti e Russia hanno annunciato di aver raggiunto una tregua umanitaria di sette giorni per le aree del nord della Siria: un impegno concreto utile a rafforzare e a dar forza alla ripresa dei colloqui di Ginevra III del prossimo 25 febbraio. Poche ore dopo l’annuncio, Arabia Saudita e Turchia hanno dichiarato di esser pronte a intensificare i raid aerei contro lo Stato Islamico e di valutare, se necessario, un’eventuale operazione congiunta terrestre in Siria sotto la bandiera della neo costituenda coalizione sunnita anti-terrorismo. Sebbene dopo una mediazione statunitense la possibilità dell’invio di truppe sembri essere stata al momento accantonata, la situazione resta molto tesa. In questo quadro di piena mutevolezza e complessità, la proposta di Riyadh conferma tuttavia il suo rinnovato impegno diplomatico e militare nella regione.

coalizione-islamica-arabia-saudita
Una prova recente del nuovo corso saudita è rappresentata dall’annuncio, il 15 dicembre scorso, della formazione di una nuova coalizione militare per combattere tutte le forme di terrorismo. Peculiarità di tale alleanza è la sua composizione: 34 membri, la gran parte dei quali sono Paesi islamici e sunniti [1]. Al patto promosso dalla famiglia regnante saudita hanno aderito le monarchie del Golfo (ad eccezione dell’Oman), Turchia, Egitto, Giordania, Marocco – i principali eserciti per numero, esperienza e forza militare dell’area MENA –, numerosi Paesi africani (tra tutti Nigeria, Ciad e Somalia) e qualche asiatico (Bangladesh, Malaysia e Pakistan), ma ne sono stati esclusi Afghanistan, Iraq, Siria e Iran. Seppur non coinvolta direttamente, l’Indonesia – il più popoloso Paese musulmano al mondo – ha mostrato il suo interesse nel farvi parte. Il Ministro della Difesa e secondo in linea di successione al trono, Mohammed bin Salman, ha comunicato che l’intesa prevede la creazione a Riyadh di un centro operativo congiunto per coordinare, a seconda delle capacità del singolo membro, gli sforzi militari contro qualsiasi organizzazione terroristica attiva nel mondo musulmano, non solo dunque lo Stato Islamico (IS). A questo riguardo, il Ministro degli Esteri Adel al-Jubeir ha spiegato inoltre che in un prossimo futuro la nuova «alleanza potrebbe impegnarsi militarmente negli scenari di crisi mediorientali come Iraq, Siria, Libia, Egitto, e in Afghanistan». Le prove generali di questo nuovo soggetto militare sono avvenute in Yemen, dove l’Arabia Saudita aveva cercato di creare una sorta di coalizione musulmana e sunnita per combattere i filo-sciiti Houthi e, soprattutto, per contenere possibili influenze dirette iraniane nella Penisola Arabica. Come hanno fatto trapelare al-Jubeir e Salman, la coalizione islamica è sorta anche dietro le ripetute sollecitazioni della Casa Bianca, che auspicava da mesi un maggiore coinvolgimento degli attori locali nella lotta al terrorismo di IS [2].

Un modello vincente? – Semmai vedrà formalmente la luce, il patto politico-militare promosso dagli al-Saud non è esente da difficoltà di vario tipo (tecniche, politiche, ideologiche, etc.), evidenziate anche e soprattutto dagli squilibri strutturali, dall’assenza di una chiara definizione di obiettivi finali e priorità nell’immediato, nonché da una certa divisione all’interno dello stesso fronte dell’alleanza.

Ad esempio Pakistan, Turchia, Giordania ed Egitto, pur riconoscendosi pienamente nella coalizione e appoggiando qualsiasi azione contro la sicurezza di Riyadh o di qualunque altro membro del patto, hanno posto dei paletti e dei distinguo alla loro partecipazione, ribadendo però la necessità di giungere innanzitutto ad una definizione stessa di terrorismo, in secondo luogo di definire le priorità dell’azione e, infine, di appianare le divergenze politiche tra gli attori coinvolti – e in taluni casi profonde – sulla gestione delle crisi in Siria e in Yemen. Se le questioni prettamente politiche potrebbero essere anche superate, la nozione di “terrorismo”, rischia di risultare il tema maggiormente divisivo, nonché disgregante della coalizione. Lo statement ufficiale dichiara che l’obiettivo è di «proteggere le nazioni dai mali provocati da tutti i gruppi e da tutte le organizzazioni terroristiche», a prescindere «dalla loro dottrina», che si rendono responsabili di «uccisioni o che diffondono la corruzione nel mondo e mirano a terrorizzare gli innocenti» [3]. Per gli egiziani, ad esempio, i Fratelli Musulmani sono terroristi, mentre per i turchi non lo sono. Un discorso analogo si riflette allargando lo spettro anche sui foreign fighters e sulle organizzazioni terroristiche presenti nel teatro siro-iracheno. Questa ambiguità voluta non distingue appunto su chi o cosa sia “terrorismo” e allo stesso tempo su chi o cosa colpire in termini di coalizione militare, con il rischio quindi di aumentare le rivalità intra-jihadista e di aprire contemporaneamente più piani paralleli di instabilità ai singoli scenari di crisi e/o a quelli interni ai singoli Paesi dell’alleanza. In questo caso i rischi maggiori riguarderebbero l’escalation di attacchi violenti e il favorire di una recrudescenza terroristica in Stati già di recente minacciati dal fenomeno come Arabia Saudita, Egitto o Turchia. Infine, il problema ideologico e di indirizzo nasconde una questione non di poco conto come il reale contributo delle forze sul campo e la capacità stessa dei singoli aderenti all’alleanza militare. Come precedentemente detto, Paesi del calibro di Pakistan, Turchia, Giordania ed Egitto, non sono disponibili ad assecondare le volontà saudite sul dispiego di propri uomini sul terreno di scontro. Come già accaduto per il caso yemenita – dove peraltro la coalizione anti-Houthi non ha mostrato grandi successi o segni tangibili di indebolimento dei ribelli filo-sciiti e filo-Saleh –, alcuni Paesi sarebbero favorevoli (si veda l’Egitto) a mettere a disposizione mezzi e strutture, mentre altri sarebbero interessati ad intervenire solo in caso di estrema necessità (Turchia e/o Pakistan). Tutto ciò senza contare le reali capacità, preparazione militare ed esperienze maturate dai singoli Paesi dell’alleanza nell’affrontare una tipologia di minaccia ibrida com’è quella rappresentata dai miliziani di IS, al-Qaeda e dagli altri gruppi terroristici [4].

Non di meno, il nuovo patto militare a guida saudita potrebbe presentare alcune rilevanti implicazioni anche sul piano politico dei quadranti intra- ed extra-regionale.

Dimensione intra-regionale – Dietro le diatribe di carattere religioso, la rivalità tra Riyadh e Teheran si è alimentata anche di considerazioni di natura politica e strategica. Infatti, la necessità da parte di ambo gli attori di voler imporre il proprio peso politico nella regione è un modo diretto per estremizzare sempre di più il processo di settarizzazione esistente in Medio Oriente, anche per mezzo delle proxy wars (Siria, Yemen, Bahrain). In questo senso, la proposta saudita mira a proporsi come uno strumento proteso ad avversare la crescente influenza del rivale iraniano nel Golfo e in Medio Oriente. Una rivalità che trova una sua giustificazione sia nel sistema di alleanze e nuove relazioni venutosi a creare nel post-accordo sul nucleare iraniano del luglio scorso e nella conseguente reintegrazione dell’Iran nella comunità internazionale, sia in una reciproca percezione di se stessi come guide del mondo arabo-musulmano. Non a caso il disegno saudita esclude Iraq e Siria – ossia gli Stati arabi allineati alla politica estera di Teheran – e Oman – attento equilibratore dei rapporti regionali e negoziatore rilevante nelle crisi in Yemen e sul nucleare iraniano – dal quadro dell’alleanza, che non comprende anche altri Paesi musulmani, quali Afghanistan e Algeria [5].

L’interventismo mediorientale dell’Arabia Saudita riflette, inoltre, la volontà di salvaguardare i propri interessi nell’area anche al fine di prevenire e contenere qualsiasi minaccia alle ambizioni di leadership nel mondo arabo-sunnita da parte di Riyadh. Una prova di ciò è stata la decisione saudita di avversare ogni tentativo di realizzazione egiziana del progetto di Joint Arab Military Force (JAMF) [6], il progetto di una forza congiunta panaraba rilanciata dal Presidente al-Sisi durante il summit straordinario della Lega Araba a Sharm el-Sheikh lo scorso marzo. A frenare la realizzazione di questo dispositivo di sicurezza mediorientale ha inciso notevolmente il ruolo esercitato da alcuni influenti attori dello scacchiere strategico arabo-sunnita (tra cui la stessa Arabia Saudita), contrari a qualsiasi perdita di influenza nei contesti locali e transregionali. Inoltre, il lancio del progetto saudita, che mira a imporsi come l’equivalente islamico della NATO, ha sostanzialmente paralizzato le velleità egiziane, ridimensionando, se non addirittura annullando, i tentativi del Cairo di creare un dispositivo analogo, ma di carattere totalmente mediorientale [7].

Dimensione extra-regionale – L’alleanza islamica anti-terrorismo ha evidenziato anche una mai sottaciuta ambizione di affermazione saudita quale influente attore transnazionale, attraverso un ampliamento e un rafforzamento della propria rete di politica estera e degli strumenti diplomatici di soft power (accordi commerciali, fondazioni di carità, istituti di cultura islamica, etc.) nell’Africa islamica e nel Sud-Est asiatico. Contestualmente, tale penetrazione economico-commerciale, culturale e, dunque, politica potrebbe far acquisire all’Arabia Saudita un nuovo status di decisore sempre più globale, in grado di intervenire e influenzare le dinamiche extra-regionali sempre più interconnesse con lo scenario mediorientale e internazionale. Questa azione potrebbe tuttavia comportare alcune criticità sul piano interno alle stesse società africane, con il rischio appunto di alimentare nuove tensioni religiose. Infatti alcuni membri della coalizione, come Gabon e Uganda, sono Paesi a prevalenza cristiana (rispettivamente il 75% e l’80%); altri, come Nigeria o Ciad, hanno un’importante e numerosa minoranza cristiana (40% e oltre il 20%); altri ancora, come Togo o Benin, sono pressoché di fede cristiana [8]. Proprio l’elemento islamico e sunnita, rappresenta un elemento di novità. L’idea sulla quale la proposta di Salman – autentico dominus della scena politica nazionale ed estera saudita – sembra fondarsi è quello di un concetto di Umma (comunità) confessionale e transnazionale, che combatte il terrorismo dell’IS e di tutti gruppi islamisti che minacciano lo status quo internazionale. Il tentativo di istituzionalizzare una struttura militare su basi religiose – e wahhabite nella fattispecie – potrebbe rappresentare il principale asset strategico di espansione e di penetrazione di Riyadh negli altri scenari islamici mondiali che l’hanno vista finora poco presente [9].

Infine, ma non per questo meno rilevante, il patto militare saudita rappresenta un messaggio indiretto rivolto a Stati Uniti e Russia, a loro modo impegnati su più tavoli negoziali nelle crisi mediorientali in Siria e Yemen. La definizione di una coalizione islamica a guida saudita si pone infatti in competizione sia con l’asse Russia-Siria-Iraq-Iran (coalizione RSII o anche gruppo 4+1, dove il +1 è Hezbollah) sia, in particolare, con la coalizione internazionale anti-IS capeggiata da Washington. La costituzione di un’alleanza alternativa a quella guidata dagli USA rientra in una duplice necessità saudita: da un lato in una ricerca di maggiore indipendenza da Washington – percepito oggi più come un partner economico che come un fedele alleato –, dall’altro in un rafforzamento di questa autonomia in politica estera al fine di garantirsi alleanze a geometrie variabili il più ampie possibili a seconda del target di turno [10].

coalizioni-confronto-isis-arabia-saudita
Coalizione internazionale anti-IS vs Coalizione islamica a guida saudita – Fonte: Reuters, US Department of State, SPA News Agency

Quali prospettive? – La presenza di più piani di instabilità paralleli esterni all’Arabia Saudita (il contenimento dell’Iran e le proxy war regionali) rende particolarmente complesso il disegno geostrategico di Riyadh nell’attuale scenario regionale, con il rischio inoltre che la lotta al terrorismo islamista assuma sempre più i connotati di un pretesto politico utile a ridefinire gli equilibri di forza nell’area che non a dipanare l’intricata matassa mediorientale. Parallelamente, il perseguimento di più contemporanei obiettivi strategici da parte degli aderenti alla coalizione potrebbe dare luogo a complesse dinamiche che potrebbero minare la credibilità della stessa alleanza militare. Ecco dunque che un soggetto dal potenziale stabilizzante e aggregante, almeno per una parte, della regione mediorientale potrebbe verosimilmente trasformarsi in uno strumento divisivo e foriero di nuove fratture e tensioni geopolitiche ad uso e consumo di uno o più attori locali e internazionali.

* Giuseppe Dentice è Coordinatore editoriale OPI e Research Fellow (Head) area Grande Medio Oriente

Segui @GiuseppeDentice

[1] Gli Stati membri della coalizione islamica anti-terrorismo sono: Arabia Saudita, Bahrain, Bangladesh, Benin, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Gibuti, Giordania, Guinea, Kuwait, Libano, Libia, Maldive, Mali, Malaysia, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina, Qatar, Senegal, Sudan, Sierra Leone, Somalia, Turchia, Togo, Tunisia, Yemen.

[2] S. Kerr, Saudi Arabia and allies establish anti-terror military body, “Financial Times”, 15 December 2015.

[3] Si veda Deputy Crown Prince: Islamic Coalition to fight terrorism will coordinate with important countries in the world and international organizations and confront any terrorist organization 2 Riyadh, “Saudi Press Agency”, 15 December 2015.

[4] Implications of the Islamic Coalition against Jihadist organizations, “Islamic Movements Studies Program”, The Regional Center for Strategic Studies – RCSS, 22 December 2015.

[5] A. Mustafa, A. Mehta and J. Gould, How United Is Saudi Arabia’s New Anti-Terror Coalition?, “DefenseNews”, 18 December 2015.

[6] Questa forza multilaterale panaraba dovrebbe essere composta da 35.000 fanti, 5.000 unità navali e personale dell’aeronautica per un totale di circa 1.000 unità, con un comando unificato in Egitto o in Arabia Saudita. Il progetto, che rappresenta una riedizione di una vecchia proposta avanzata del Presidente egiziano Nasser durante gli anni Sessanta, non è ancora operativo e, presumibilmente, vedrà ancora diversi mesi di trattative per stabilirne strutture e meccanismi.

[7] F. Nazer, Is Saudi Arabia building an ‘Islamic NATO?’, “Al-Monitor”, 20 December 2015.

[8] Si vedano i dati su popolazione e società del CIA World Factbook.

[9] A. Taylor, Saudi Arabia’s ‘Islamic military alliance’ against terrorism makes no sense, “The Washington Post”, 17 December 2015.

[10] A. al-Omran, A. Fitch, Saudi Arabia Forms Muslim Antiterror Coalition, “The Wall Street Journal”, 15 December 2015.

Una versione di questo articolo è stata precedentemente pubblicata su ISPI

Photo credit: Saudi Press Agency (In apertura); Arabnews.com & Business Insider UK (Immagine 1)

Share on Tumblr

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog