Massimo Ambrosini in una recente conferenza stampa
La sua prima da ex contro il Milan è durata solamente 34′
STORIE (Milano). 34 minuti, poco più di mezz’ora, 2.040 secondi nei quali si può rivivere un’intera esperienza calcistica, magari quella che ha caratterizzato tutta una carriera, una vita. Massimo Ambrosini con la fortuna ha sempre avuto un conto aperto: il suo percorso, soprattutto negli ultimi anni, è stato costellato da infortuni di varia natura che hanno minato la sua presenza in diverse occasioni, nonostante questo non sia riuscito a incidere su ciò che il legame con il Milan è stato per tanti anni di battaglie con la maglia rossonera.
Proprio quella stessa maglia che ieri sera, a San Siro, “Ambro” si è ritrovato di fronte, nonostante non fosse al meglio, nonostante i medici fossero contrari a un suo impiego e, perchè no, nonostante la magra figura che una sua defezione a partita in corso avrebbe potuto comportare.
La fortuna anche ieri non ha guardato alla causa di Ambrosini, costringendolo alla sostituzione dopo 34 minuti di partita, ma nella bagarre di critiche piovute addosso al centrocampista numero 21 della Fiorentina, in tanti non riescono a comprendere un concetto fondamentale: i calciatori sono prima di tutto uomini, e seppur spesso e volentieri questi vengano trattati come delle macchine oppure loro stessi si investano di presunti superpoteri, nelle loro vene scorre passione, emozione, sensibilità. Ingredienti che nelle vene, ma soprattutto nel cuore di “Ambro” non sono mai mancati, come in quella famosa conferenza di addio al Milan quando – cacciato in malo modo dalla “famiglia” rossonera – il capitano ha deposto le armi con un sussulto misto di dispiacere e rancore: “Sono ancora un giocatore” gridò dalla pancia del Meazza, con la “casa del Diavolo”, come recita lo speaker milanista, che divenne quel giorno la casa di Ambrosini.
Passione, emozione, sensibilità, quindi, che pulsano nella mente di quei protagonisti che tanto ci divertiamo a incensare o attaccare: quelle stesse componenti a volte fanno la differenza, a volte sono capaci di farti scontrare con referti medici che poche speranze lasciano in vista di 90 “semplici” minuti.
Ambrosini sapeva di andare incontro a una partita di grande sofferenza, sapeva di rischiare di costringere Montella a un cambio non previsto, e quindi potenzialmente deleterio per la squadra, sapeva soprattutto che il rischio di inficiare il prosieguo del suo campionato c’era ed era molto, molto concreto.
Da uno come lui, con la sua esperienza, ci si sarebbe aspettati forse maggior raziocinio, quella sana prudenza propria dei “saggi del calcio”, quando è meglio saltare un match piuttosto che giocarlo per poi saltare i quattro successivi.
Ma pensateci: Ambrosini è sempre stato il cuore impavido del Milan moderno, colui il quale insieme a Gattuso recitava la parte del leone in mezzo a tanto talento e, quindi, tante prime donne; i suoi infortuni, il suo logorio fisico, sono dettati da una maniera di interpretare il calcio come una sfida continua, nella quale tirarsi indietro è peccato e dare tutto ciò che si ha è ovvio. Ieri sera Massimo Ambrosini ha fatto semplicemente ciò che è nel suo DNA, con l’aggiunta di quella sensibilità che solo San Siro poteva – a 36 anni suonati – ancora stimolare e quella voglia di rivincita che sin da quella conferenza stampa gli faceva ribollire il sangue.
Sono stati 34 minuti, potevano essere anche soli pochi secondi, “ma dovevo chiudere il cerchio” si è affrettato a dire nelle interviste del dopogara, quasi come un bimbo che sa di aver sbagliato in un gesto e allora si affretta a motivare le ragioni che lo hanno portato a compierlo.
La verità è che Ambrosini – con la sua riservatezza e il suo carattere un po’ schivo di certo non un “simpaticone” del nostro calcio – non deve chiedere scusa proprio a nessuno, anzi: tanti soloni pallonari dovrebbero chiedere perdono loro a lui. L’ex numero 23 ora numero 21, l’ex Milan ora alla Fiorentina, l’ex bandiera rossonera ora matricola viola, ieri sera, in barba a referti medici, problemi di formazione, tatticismi e quant’altro, è riuscito nell’impresa di riportare la palla al centro: perchè il calcio è passione, e di gente alla Massimo Ambrosini ha ancora tanto bisogno.