I palazzi dieci volte più alti dei nostri, le donne di gran lunga più belle e facili, le strade più larghe, il cibo tanto buono quanto abbondante: il pensiero all’ipotetico oltreoceano, da bambini, si perdeva nelle valli di cotone coltivate a sudore nero, alla route 66 sgombra d’ogni anima e percorsa da choppers fuori scala, ai bagliori di una Manhattan notturna, alle spiagge di una California in bikini, e Marilyn, Jimmy Dean, la Coca Cola, il Rock & Roll. Lì, si diceva, anche un impiegato delle poste può essere un supereroe, anche la coinquilina del terzo piano una spia russa, anche un commesso di McDonald’s una promettente rockstar: la terra delle possibilità, la patria dei “bella ciao” che sbarcavano grigi di stanchezza con le valige di cartone e magari diventavano ricchi e stimati gangster, l’american dream che ai nostri occhi infanti si rincorreva su lande immense con cowboys ed astronauti, abbondanza e benessere. Da ciò che riesco a ricordare l’America ha impregnato tanto i nostri giorni, che aspirazioni, gusti, posizioni morali e atteggiamenti ne sono risultati visibilmente condizionati: un grande carosello di luci di gran lunga più luminose di tutte le altre, un grande ballo di gala colmo di ogni bene, di ogni lusso, di maschere sontuose e tanto belle da risultare inarrivabili, fuori portata, gli “iuesei” che l’indottrinamento catodico ci ha dato in pasto, da sognare e rincorrere come un’arcana formula esoterica, con gli occhi cerchiati di meraviglia.
Se per voi il grande carnevale nordamericano è anche tutto questo e non solamente un impasto fetido di manovre egemoniche di controllo mondiale alla luce di un imperialismo cinico, arrogante e “multimediale”, questo film fa proprio al caso vostro, proponendosi di far comprendere, con punte di altissima poesia e quel tocco di rassicurante glamour da avanspettacolo, come è stato possibile che una terra di nessuno occupata da orde di bastardi, miscredenti e reietti in fuga da ogni stato europeo diventasse nel giro di un secolo la “culla” della civiltà mondiale contemporanea e allo stesso tempo il maggior esportatore di ricchezza, ingegno e “democrazia”, la grande America delle possibilità esaudite. L’animazione di American Pop (perché è di un “animated music drama” che stiamo parlando) viene eseguita secondo una raffinata tecnica di rotoscoping (ovvero il disegno a mano libera realizzato direttamente sui fotogrammi della pellicola), inframmezzando la visione con reali immagini d’archivio relative alle differenti epoche storiche entro le quali si dispiega questa affascinante trama trans-generazionale. Trama che, sia chiaro, evito di esporre, concedendovi il gusto di passeggiare insieme ai protagonisti lungo il corso di ben 80 anni di storia americana, attraverso gli occhi ed i volti di personaggi totalmente inventati o talvolta verosimilmente reali (verosimilmente perché, nel caso di Ginsberg, degli esponenti del Punk targato 1977 o del primo David Bowie, la presenza è una citazione taciuta ma volutamente palese).
Una passeggiata che, vi assicuro, inchioderà il vostro cuore al muro quando capirete che il lettore DVD ha già fatto il suo giro e la pellicola volge al termine e voi, ormai affettivamente incatenati alle (dis)avventure di questa processione di attori animati, avrete voglia di saperne di più. Fortunatamente (e lo dico con intimo sollievo) il film, prodotto e distribuito nel 1981, non ha visto la luce nella nostra triste era cinematografica segnata da “storyboard di successo” dai quali vengono estrapolati infiniti sequel in cui le trame si ritrovano spesso e volentieri stirate oltre il punto di frattura: nel nostro caso tutto nasce e si conclude nei suoi intensi 96 minuti, lasciando a noi spettatori il retrogusto agrodolce del capolavoro e al regista (Ralph Bakshi, quel genio dell’animazione che tirò fuori il lungometraggio Fritz il gatto dai fumetti di Crumb) il merito di uno sguardo acuto ed innocente al tanto evocativo “american way of life”. Siamo stati condizionati a tal punto da sentirci anche noi protagonisti di tanto splendore e tanta miseria: decidete voi, fruitori di prospettive, se ciò è stato un bene o no. Io intanto, col mio bel berrettino da baseball, vado in qualche fast-food a parlare di quanto detesto i fottuti statunitensi: IU-ES-EI!