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Amerindia: la frontiera globale dei beni comuni

Creato il 21 ottobre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Francesco Trupia

america latina-beni comuni
Dal 30 settembre moltissime città degli Stati federali del Brasile sono caratterizzate dalle numerose mobilitazioni organizzate dai movimenti indigeni nazionali, decisi a protestare contro le possibili riforme costituzionali che – a parer degli stessi attivisti – aiuterebbero l’ingresso di potenti corporations interessate dalle risorse naturali del Paese. Alla mobilitazione, indetta dalla Articulación de Pueblos Indígenas, partecipano altre sigle: l’Istituto Socio-Ambientale, il Consiglio Indigenista Missionario e il Centro per il Lavoro indigenista. L’ennesimo attacco alle risorse sudamericane da parte dei noti colossi economici ha scosso l’attiva società civile che – come affermava Octavio Paz – in America Latina ha essenzialmente una struttura democratico-partecipativa. In un ottica ecologico-qualitativa piuttosto che economico-quantitativa, la lotta per la difesa dei beni comuni è divenuta il simbolo del Continente.

L’Amerindia [1] è divenuta quel bene comune la cui difesa si contrappone alla logica dei mercati globalizzati e dei numerosi processi di privatizzazione avallati dai governi nazionali. Che si tratti di disboscamento dell’Amazzonia, dell’edificazione di grandi dighe, dell’installazione di “zone economiche speciali”, il nemico dei beni comuni appare la micidiale tenaglia dello Stato e delle corporations. In Brasile i precedenti disboscamenti avevano condotto intere popolazioni indigene all’auto-genocidio. Le parole di uno dei leader del ʻMovimento dei Senza Terraʼ Joao Pedro Stédile apparve come la migliore critica verso un’impostazione economicistica che «tenta di farla finita con lo Stato, perché sembra che il capitale possa governare definitivamente il mondo». Quello che a partire dall’inizio degli anni Novanta poteva sembrare l’ennesimo movimento da bollare in quanto anti-sistema, come l’Altra Campagna lanciata dal sub-comandante Marcos nello Stato messicano del Chiapas, oggi costituisce invece il grande scontro delle popolazioni autoctone per la difesa dei beni comuni. Se il politologo Donald Payne afferma che i numerosi movimenti ecologisti e le organizzazioni di contadini tendono ad avere un atteggiamento “incivile”, quest’ultimi invero hanno avuto il grande merito di promuovere rappresentanze di interessi ed identità che, cooperando insieme alle autorità internazionali, hanno realizzato una costruttiva cooptazione. La Dichiarazione Universale della Madre Terra, presentata nel 2009 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata subito dopo e garante dei diritti inalienabili della Pachamama, rileva concretamente l’importante obiettivo raggiunto [2]. La successiva adozione di testi costituzionali confermerebbero le ulteriori risposte che molti Paesi latinoamericani hanno dato ai principi contraddittori della diplomazia occidentale, racchiusa nello schizofrenico impulso umanitario, nella propria autodeterminazione all’estero, e sul concetto – inconciliabile con i primi due – per cui tutti i problemi devono essere risolti con i propri metodi.

I riconoscimenti in ambito internazionale dei popoli che hanno maggiormente sponsorizzato la difesa della Madre Terra [3], hanno promosso nuovi centri di gravità in grado di superare quel determinismo geografico che rendeva l’America Latina – proprio a livello globale e rispetto al governo statunitense – un’area subordinata alle scelte altrui. La fioritura di nuovi istituti giuridici in tema di eco-sostenibilità, tutela dell’ambiente e politiche sociali, hanno trovato pieno riconoscimento e sostegno dall’avanzare dei movimenti volti alla salvaguardia del “bene comune”. Nei nuovi testi costituzionali di Ecuador e Bolivia si è garantito in sede costituzionale, ripristinando la tradizione indigena dei due Stati, la categoria di un bene comune rientrante nella tipologia di “diritti fondamentali” e “diritti di ultima generazione”. Qualsiasi altro testo costituzionale occidentale, che invano cerca di promuovere la salvaguardia dei “propri” beni comuni, sembra non poter reggere il confronto. La storica vittoria di Evo Morales alla Presidenza della Bolivia, primo Presidente indigeno del Paese, testimonia l’affermazione di un concetto non rintracciabile in nessuna categoria giuridica, politica o economica in Occidente. I beni comuni non possono essere ridotti a meri oggetti da possedere, o di cui si può “avere il diritto” di possedere. I diritti della Madre Terra e la loro salvaguardia sono oggi i punti cruciali dell’agenda politica di Morales [4]. Durante i disastrosi effetti dell’Uruguay Round, le risposte che acceleravano il processo di difesa dei beni comuni esprimevano un aspetto interessante. Le popolazioni più povere della zona latinoamericana, possibilmente favorevoli a nuove politiche di sviluppo economico, rifiutavano la svendita dei beni comuni nazionali e rigettavano la loro possibile “mercificazione”. Se in Bolivia i campesiños riuscirono a contrastare la privatizzazione della multinazionale dell’ʻoro-bluʼ Bechtel con l’elezione di Evo Morales [5], in Ecuador la lotta contro la Chevron-Texaco, intenta nell’attività di estrazione petrolifera, sancì la nascita di un modello di economia sociale e solidaristica. Anche in Argentina, molti anni prima rispetto ai fatti già citati, il governo francese aveva fatto pressione all’azienda Aguas Argentinas affinché stipulasse nuovamente gli accordi contrattuali con la Suez Lyonnaise che, dopo aver privatizzato il settore idrico, si era accorta che i contratti firmati precedentemente erano meno redditizi di quanto credesse. L’acqua, così come il petrolio o la foresta amazzonica, essendo beni comuni, ricavati dalla Madre Terra, non possono rientrare nella proprietà dello Stato né di un singolo privato, poiché restano “comuni”. L’utilizzo delle risorse della Pachamama, quindi, fuoriescono dai tradizionali schemi della tradizione occidentale della proprietà privata e da quelli della sfera pubblica, ossia della proprietà demaniale dello Stato. L’ex Presidente Hugo Chavez aveva creato in Venezuela delle cooperative contadine dopo aver sottratto ai grandi proprietari terrieri tutte le loro grandi proprietà agricole, raggiungendo l’obiettivo di una gestione collettiva della Terra. Bloccando gli interessi individuali, privati e specifici, il Venezuela è oggi il secondo esportatore di greggio su scala globale grazie al suo “sfruttamento sostenibile” delle risorse petrolifere. Sulla scia venezuelana, in America Latina, è attualmente in fieri un fenomeno interessante di riconduzione dell’uso tradizionale della Terra ad un godimento comune e collettivo, senza alcun concetto formale di proprietà. (5) Il senso di “comune” è servito all’America Latina a riprodurre un modello di ecosistema, ossia una comunità di individui o di gruppi sociali legati fra di loro da una struttura a rete, favorendo un modello democratico di tipo collaborativo e partecipativo. In Brasile anche l’esperienza del Bilancio Partecipativo della città di Porto Alegre sottolineava come fosse possibile aumentare l’enpowerment delle classi popolari nei processi di policy. In tale esperienza, per i movimenti che promossero l’idea, Porto Alegre era il simbolo del bene comune in cui tutti potevano decidere e legiferare.

Come ricorda Joseph Stiglitz anche «in un piccolo villaggio andino, anche lì, il sindaco inveiva contro la globalizzazione e le sue responsabilità nella diffusione della biopirateria», aggiungendo che si dovrà «pensare ad un modo più ponderato di gestire i rapporti commerciali – più bilanciato nel tutelare gli interessi dei Paesi in via di sviluppo e più equilibrato nell’affrontare temi non strettamente economico-commerciali, come per esempio quello dell’ambiente». La difesa di quest’ultimo e dei suoi beni comuni propone un’importante progettualità per le generazioni future. Infatti, se non difesi, tutti i beni comuni una volta alienati o distrutti non esisterebbero più, non sarebbero più riproducibili o facilmente recuperabili, né per la generazione presente né per quella futura a cui non si potrebbe rimproverare le scelte effettuate dalle attuali generazioni. L’opposizione della società civile in America Latina ha posto tali beni “fuori commercio”, proteggendoli attraverso strumenti giuridici in sede costituzionale. L’apertura di una cooperazione e di uno studio approfondito da parte proprio dell’Occidente sarebbe auspicabile, poiché proprio i frutti della ricerca vanno a beneficio di tutti, ovunque, e senza costi aggiuntivi. D’altronde, anche la conoscenza è un bene pubblico in attesa di internazionalizzazione.

* Francesco Trupia è laureando in Politica e Relazioni Internazionali (Università di Catania)

[1] Amerindia è il nome con il quale diversi popoli locali designano l’intero Continente americano,  senza  distinguere gli indigeni statunitensi da quelli sudamericani. Viene definita anche Pacha Mama o Abya Yala da popoli indigeni.

[2] Nella Dichiarazione si afferma letteralmente il diritto della Madre Terra «ad essere rispettata, a non alterarne e bloccarne i propri cicli e processi vitali, alla propria salute integrale, alla propria libertà da qualsiasi forma di inquinamento da rifiuti tossici o radioattivi, di non alterarne l’interna struttura genetica» (art.2).

[3] Tra i riconoscimenti più importanti in ambito internazionale ricordiamo il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966, il coevo Patto sui diritti economici, sociali e culturali, la Dichiarazione sulle politiche culturali (Città del Messico, 1982), la Dichiarazione sulle Minoranze del 1992, la convenzione quadro del Consiglio d’Europa del 1995, la Dichiarazione universale sulla diversità culturale (Parigi, 2001), la Convenzione sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali (Parigi, 2005), la Convenzione n. 169 dell’OIL e la recente Commission on folk-law and legal pluralism.

[4] In Ecuador la vittoria di Morales avvenne dopo che la multinazionale Bechtel denunciò i contadini per concorrenza sleale dopo che quest’ultimi avevano raccolto in cisterne l’acqua piovana per irrigare i propri campi poiché non capaci di pagare l’esose tariffe che, propria la multinazionale che gestiva la risorsa idrica, aveva imposto.

[5] I concetti giuridici costituzionalmente garantiti e difesi in Ecuador del ʻsurcofundioʼ, ʻminifundioʼ, ʻarriendoʼ e ʻparticiónʼ possono essere considerati come i migliori esempi di uso comune e collettivo della Terra.

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