L’eventualità di una guerra prossima in Mali non è poi neanche così remota(se ne parla parecchio negli ambienti deputati senza più nascondersi nemmeno dietro un dito) anche se, a dirla tutta, è dal marzo scorso che il Paese ha dimenticato cosa sia la pace.
Esso,infatti,vive a causa dell'embargo continue, notevoli e ripetute difficoltà di ordine pratico , nella quotidianità, che mettono a dura prova sopratutto la popolazione civile.
Sia uomini che donne,che anziani e che bambini.
E questo è realtà tanto a Bamako, la capitale, che nell’ultimo remoto villaggio rurale.
In particolare nella parte settentrionale il disagio è più che pesantemente avvertito, dove tuareg e fondamentalisti islamici, che applicano la sharìa, fanno, in mille modi , solo ed esclusivamente il “cattivo” tempo.
Ed è difficilissimo mettersi al riparo da violenze, devastazioni e processi sommari.
L’ex-ministro della cultura,Aminata Dramane Traoré,brillante e nota scrittrice, e altre donne maliane hanno lanciato, allora, un appello al mondo politico internazionale, sostanzialmente guerrafondaio per i propri esclusivi interessi, agli stessi governanti-fantoccio del Mali, all’Unione Africana (UA), che ha incassato solo brutte figure in occasione del conflitto libico e ai Paesi dell’Ecowas(Cedeao), perché non ci sia nessuna guerra a breve termine.
Esse palesano, senza troppi peli sulla lingua, l’ambiguità di un agire della comunità politica internazionale nel suo insieme.
In primis la Francia, e poi tutti gli altri (anche i Paesi africani confinanti e la stessa Onu).
Le donne maliane sostengono che ciò che si vuole per davvero da coloro che si dicono paladini del Nord è mettere le mani e accaparrarsi materie prime strategiche e/o realizzare percorsi geo-politici utili e idonei.
E non si sbagliano.
Chi fosse scettico in merito, vada a documentarsi sul petrolio del Mali e sull’uranio del vicino Niger.
Un tempo s’interveniva per sopperire a bisogni e a difficoltà di certi Paesi in ambasce da parte dell’Occidente con la cooperazione, oggi è cambiato il vento.
E tutti,a ogni piè sospinto, intravedono nelle guerre , soltanto nelle guerre , la soluzione ai problemi che, di volta in volta , si presentano nel mondo.
Nemmeno il conflitto libico ha fatto riflettere abbastanza.
E Aminata e le sue donne si riferiscono all’enorme quantità di armi che successivamente dalla Libia sono transitate agevolmente nei vicini Paesi del Sahel.
Armi e uomini armati.
Strumenti di morte e sbandati rancorosi in sostanza, disposti a mettersi al servizio di chiunque offra di combattere per una buona paga.
In conclusione le donne maliane chiedono all’Onu e al Consiglio di Sicurezza di non dare il consenso al piano militare della Ecowas(Cedeao) e all’Unione Africana, ugualmente, di fare altrettanto.
Le sanzioni economiche, in corso attualmente in Mali, hanno creato e creano nuove e impreviste povertà.
Una guerra,accanto al tributo di vite umane falciate, aggraverebbe di molto la situazione e porterebbe il Paese in un vicolo cieco da cui sarebbe difficile uscire.
Perciò il dialogo, se il mondo politico vuole smettere di fare professione di ipocrisia, deve essere, per Aminata e le sue compagne di lotta, lo strumento preferito e privilegiato rispetto a qualsiasi altra possibile strategia.
Guerra è sofferenza, devastazione, morte.
Le donne maliane ,invece, amano la vita e auspicano presto e bene il ritorno di una pacifica convivenza per le loro genti.
Com’è giusto che sia.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)