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Amir Valle intervista Giovanni Agnoloni

Creato il 15 giugno 2011 da Fabry2010

Sono felice di segnalare un’intervista di un comune amico, e la cosa vale sia per l’intervistatore che per l’intervistato. Il primo è Amir Valle, scrittore cubano di fama internazionale, che prossimamente sarà pubblicato in Italia. Il secondo è il “nostro” Giovanni Agnoloni, che già aveva intervistato Valle su questo blog. Questa è la traduzione, dello stesso Agnoloni, dell’intervista uscita in spagnolo su “Otrolunes“, la rivista di cultura ispanoamericana diretta da Amir.

Dato che si parla delle opere di Agnoloni, unisco anche delle foto della recente presentazione delle novità di quest’anno di (o curate da) Agnoloni, Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori (Galaad Edizioni) e Tolkien. La Luce e l’Ombra (Senzapatria Editore), presentate a fine maggio a Roma dall’autore insieme a Roberto Arduini e Francesco Verso, alla “Casetta Rossa“. Sono tratte dal sito volodeisensi.it, come un video disponibile qui insieme ad altri che si riferiscono alla precedente presentazione fiorentina al pub “Joshua Tree“.

Ricordo infine che proprio stasera, alle 19,00, Agnoloni presenta di nuovo i libri in un caffè letterario fiorentino, il “Cuculia“, in Via dei Serragli 3.

Amir Valle intervista Giovanni Agnoloni

Ecco l’intervista di Amir Valle ad Agnoloni:

- Vorrei prima di tutto che offrissi ai lettori di Otrolunes un aggiornamento su quel che succede oggi nella letteratura italiana, soprattutto in tema di generazioni letterarie e promozione degli scrittori.

Non è un momento così facile da definire. Ci sono molti orientamenti e generi diversi e mescolati tra loro. Mi sembra che, nella narrativa, il più seguito e pubblicato dalle case editrici sia il romanzo noir, che è quello che vende meglio, probabilmente perché, attraverso storie accattivanti e ricche di sorprese, offre un’immagine piuttosto fedele della nostra società disorientata e dei dubbi e delle incertezze che tutti viviamo, in questi tempi di crisi (non solo) economica (penso ad Andrea Camilleri, a Carlo Lucarelli, a Gianrico Carofiglio). Però ci sono anche altri tipi di scrittori, che proseguono la tradizione dei “pittori della parola”, con racconti e romanzi che descrivono quadri di vita regionale o anche paesi stranieri, con un’attenzione speciale per le atmosfere i segreti individuali che quei luoghi paiono nascondere (come Marino Magliani o Elio Lanteri, per esempio, grandi interpreti dei paesaggi della Liguria, o Davide Sapienza, esploratore e “recettore” dei messaggi della natura italiana e dei mondi artici e sub-artici). C’è poi una dimensione intima che a volte emerge con chiarezza in autori che preferiscono uno stile più autobiografico (per esempio, nei libri, per altri versi molto forti, di Franz Krauspenhaar, e di Chiara Daino, che spesso parla dei suoi ricordi con grande intensità emotiva, o di Stefania Nardini, biografa non di se stessa, ma dello scrittore francese Jean-Claude Izzo). E ci sono gli scrittori di fantasy e fantascienza. Questi ultimi (ma anche gli altri) spesso si esprimono e si fanno conoscere tramite internet, e in particolare attraverso i blog letterari (come www.lapoesiaelospirito.it e www.nazioneindiana.com). In tempi di crisi, in cui sono ben poche le case editrici che possono sostenere economicamente i propri autori – specialmente gli esordienti –, internet diventa uno strumento importantissimo di diffusione e interazione.

- La letteratura latinoamericana ha influito sulla formazione delle nuove generazioni di scrittori italiani, a cui tu appartieni?

Credo di sì, ma in una forma più sottile, per esempio, di quella nord-americana, e in generale di quella in lingua inglese. Ci sono onde lunghe che provengono dal Centro e dal Sud America, da cui autori come Gabriel García Márquez (di cui pure mi sono occupato nel mio saggio Nuova letteratura fantasy, ed. Sottovoce, 2010), Álvaro Mútis, Julio Cortázar, da una parte, e Mario Vargas Llosa, Paco Ignacio Taibo II e, in tempi più recenti, Roberto Bolaño (che ho analizzato traducendo i saggi di Bolaño salvaje, ed. Candaya, in prossima uscita con Senzapatria Editore), dall’altra, hanno inviato “messaggi” e suggestioni che continuano ad arricchire la visione del mondo degli scrittori giovani italiani. L’eredità del realismo magico, unita a uno spiccato senso di coscienza sociale e umana, sono, in definitiva, gli ingredienti veramente decisivi della produzione letteraria delle nuove generazioni, nel mio paese. Perciò, credo che ci ispiriamo molto a queste fonti, però magari a volte lo facciamo senza la piena consapevolezza che sia così.

- Nonostante in Italia si scriva una letteratura veramente molto ricca, varia e ampia, sono pochi gli scrittori italiani che oggi si conoscono a livello internazionale, specialmente negli ultimi anni. Quali credi siano le barriere che impediscono una più ampia conoscenza della letteratura italiana di oggi, al di là delle frontiere nazionali?

Una penso che sia la lingua. L’italiano non è molto parlato nel mondo, diversamente dal castigliano, dall’inglese o dal francese. Certo, una volta che le opere fossero tradotte, questo problema non esisterebbe più, ma si tratta anche di una barriera mentale involontaria, che consiste nell’“aprirsi” (da parte di una casa editrice straniera) a una lingua meno conosciuta. Un altro limite potrebbe essere il fatto che l’Italia è più famosa, a livello internazionale, per altre espressioni della sua cultura, come le arti visive, la moda e la cucina. Coloro che raggiungono un successo internazionale (a parte i classici, come Italo Calvino, per esempio), sono, da una parte, gli autori che vendono di più (triste a dirsi – ma vero – indipendentemente dal loro valore artistico, che peraltro non intendo discutere), e dall’altra quelli che toccano temi universali, come la libertà (e questa credo sia la ragione del successo di Saviano).

- A che cosa credi si debba il fatto che il grosso delle opere migliori scritte oggi in America Latina sia sconosciuto ai lettori italiani?

Alla pigrizia e disinformazione di alcune case editrici, ma anche a un problema economico. In Italia infatti, purtroppo non si legge molto, e soprattutto si conoscono solo i nomi più famosi; un editore vuole davvero investire in scrittori già di fama internazionale, perché sa bene che, se li pubblicherà, guadagnerà bene. Come dicevo prima, nomi americani, o comunque di lingua inglese, attirano di più, probabilmente perché vengono da un mondo che molti italiani sentono più vicino, grazie ai film, ai viaggi fatti e anche alla più ricca presenza di anglofoni, nel nostro paese.

- Le tue opere si concentrano decisamente sulla letteratura fantastica. Potresti offrire ai lettori di Otrolunes un breve panorama di questo genere in Italia, in tema di libri, autori…?

Una premessa: io mi occupo quasi esclusivamente di J.R.R. Tolkien, che nei miei saggi Letteratura del fantastico – I Giardini di Lorien (ed. Spazio Tre, 2004) e Nuova letteratura fantasy (ed. Sottovoce, 2010), ho confrontato con autori delle letterature greca, latina e italiana dei secoli passati, e con scrittori internazionali dei secoli XX e XXI, perché volevo realizzare (o meglio, sottolineare l’esistenza di) un “ponte” tra l’immaginazione e la realtà. Sono convinto che il segreto del fascino di Tolkien sia l’avere scoperto una dimensione mitico-energetica che è la stessa che sanno intuire gli scrittori realisti più sensibili. Questa è la ragione per cui non conosco così bene gli scrittori fantasy italiani di oggi e – paradossalmente – ho una forma di diffidenza verso varie espressioni (in gran parte “epigoniche”) di un genere che già aveva detto (quasi) tutto con i suoi vari maestri (J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis, R.E. Howard e altri). Al contrario, sono convinto di due punti. Il primo è che la lezione di questi maestri (e penso soprattutto a Tolkien) sia una fonte di ispirazione intima (e quasi nascosta, come dicevo prima dei maestri latinoamericani) per gli scrittori realisti odierni (ragion per cui, in Nuova letteratura fantasy, ho confrontato Tolkien anche con autori che non hanno nulla, stricto sensu, di fantasy, come lo spagnolo Manuel Vázquez Montalbán e l’irlandese Joseph O’Connor, che, come Tolkien – anche se in forme diverse –, nelle loro opere hanno dato corpo a due archetipi fondamentali, rispettivamente la quest, ovvero la ricerca, e il ricordo). E il secondo punto è che sono altre le correnti letterarie che comprendono e riproducono meglio il senso mitico-archetipico del vero fantasy – quella che Tolkien chiamava letteratura feerica –, perché fondono, nelle loro espressioni, suggestioni energetiche fuori del tempo, benché incorporate in opere intrise di realtà: sto parlando di una corrente “fantascientifica” in cui mi riconosco molto, che è il Connettivismo, che deriva dal Cyberpunk americano di William Gibson e Bruce Sterling, già anticipati da un genio come Philip Dick. Il Connettivismo (con autori come Sandro Battisti, Giovanni De Matteo, Marco Milani e Francesco Verso, e riviste come “NeXt“, recente vincitrice del Premio Italia) è una visione di un futuro non così lontano, perciò abbatanza simile al mondo di oggi, che ben conosciamo, ma già caratterizzato dai segni di un’evoluzione pericolosa, quella provocata dalle (altresì stimolanti) prospettive della tecnologia, della rete e dell’interconnessione tra l’umano e il sintetico. In altre parole, qui siamo molto vicini alla linea di frontiera tra ciò che l’uomo è sempre stato e quel che potrebbe cessare per sempre di essere. I tratti psicologici e spirituali della nostra natura sono fortemente minacciati, e ci serve un momento di riflessione/consapevolezza. Non è solo il prodotto di un mondo nel quale stanno entrando androidi molto simili a noi – come nel famosissimo film Blade Runner, di Ridley Scott. È che noi stessi potremmo trasformarci in macchine, dimenticando l’aspetto più intuitivo e spirituale della nostra natura: quello che non ha fini materiali, e non è uno strumento, ma il fine primo e ultimo di tutto quel che facciamo (quello che Tolkien stesso temeva che potesse scomparire, soffocato da una visione meccanicistica del mondo). Il Connettivismo è il grido di questa nostra componente primaria e “panica” di fronte al rischio di estinzione della nostra componente naturale.

Amir Valle intervista Giovanni Agnoloni

- A che si deve questa passione per la vita e l’opera di J.R.R. Tolkien, così centrale nel tuo lavoro?

Beh, in parte ho già risposto, ma posso aggiungere qualcos’altro. Tolkien per me è stato una rivelazione improvvisa. Avevo letto soltanto trecento pagine circa del Signore degli Anelli, quando ebbi la chiara intuizione di un ponte (come ho già detto) tra lui e vari autori classici (e contemporanei), per cui iniziai a scrivere. Ma penso che la ragione più profonda sia spirituale e psicologica, e l’ho compresa lavorando al mio terzo saggio, pubblicato da poco da Galaad Edizioni, Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori. Qui ho paragonato i simboli e gli archetipi dei personaggi, dei luoghi e degli oggetti del Legendarium tolkieniano (con riferimento soprattutto al Signore degli Anelli, ma anche a Lo Hobbit e al Silmarillion) ai “tipi” emotivi della floriterapia del Dr. Edward Bach (lo scopritore dei “Fiori di Bach”), che nacque e crebbe a Moseley, un villaggio vicino a Birmingham, pochi anni prima che Tolkien, bambino, vi arrivasse con sua madre e suo fratello, anche se per poco tempo. Entrambi crebbero nella stessa campagna e si arricchirono grazie alle vibrazioni di quella natura semplice e profonda. Io conoscevo da molti anni i Fiori di Bach, che mi avevano accompagnato (e mi accompagnano ancora) in un percorso di scoperta della mia vera identità, dietro le maschere che (non sempre con piena consapevolezza) usiamo per nasconderci, per paura delle enormi potenzialità del nostro spirito. Quando, l’anno scorso, mi sono resto conto delle molte analogie tra le vite di questi due uomini – che molto probabilmente non si conobbero mai –, ho capito che non era un caso che avessi iniziato la mia carriera (e ricerca) letteraria, alla fine del 1997, poco tempo dopo aver iniziato a leggere Tolkien e a prendere i Fiori di Bach. Per questo ho scritto questo nuovo libro.

- Come spieghi che uno scrittore italiano scriva un thriller in inglese, come hai fatto con il romanzo Less Than A Mile? Parlacene.

Certo, non fu una pubblicazione importante, da un punto di vista editoriale. Ma lo fu per me, perché mi riconfermò nel mio amore per le lingue e mi diede il senso di un’opportunità di dialogo internazionale e dell’importanza di una ricerca stilistica attraverso vari mezzi linguistici. Io sono laureato in Legge, ma nella vita ho tre grandi amori: la letteratura, le lingue e i viaggi. Poi ne ho avuto un altro, una donna polacca alla quale ho dedicato il mio Nuova letteratura fantasy, e con la quale mi sarei sposato, l’anno scorso, se non fosse morta in un tragico incidente nella Repubblica Dominicana. È stata lei a insegnarmi che dovevo consacrare la mia vita alle mie passioni. Less Than a Mile (scritto diversi anni prima di quegli eventi) fu il mio primo sforzo di espressione letteraria in una lingua diversa dalla mia. È la storia di un giornalista americano di origini irlandesi, Séan O’Malley, che parte da Boston, incaricato dal presidente di una società informatica di ricercare un hacker che procura danni ai suoi computer da varie parti del mondo, e si sposta di continuo, senza farsi prendere. Qui c’è tutto ciò che amo: la narrativa, i viaggi e le lingue. Ed è quello che ho sviluppato in un paio di mémoir di viaggio che ho scritti di recente, il primo dei quali probabilmente sarà pubblicato in Italia l’anno prossimo. Intanto continuo a scrivere due noir che sono “figli” della stessa ricerca emotivo-spirituale nel mondo materiale, uno d’impronta più realistica e l’altro caratterizzato da “vibrazioni connettiviste”. E, chiaramente, non smetto mai di tradurre, che è il mio lavoro, insieme alla scrittura. È appena uscita una raccolta di saggi di studiosi di J.R.R. Tolkien tra i più importanti al mondo, che ho curata e tradotta per Senzapatria Editore (con anche un mio contributo saggistico), Tolkien. La Luce e l’Ombra, e prossimamente uscirà la versione italiana della raccolta di saggi su Roberto Bolaño Bolaño salvaje (di nuovo con Senzapatria, dell’editore Carlo Cannella – che è anche uno scrittore di gran qualità –; l’edizione originale, Bolaño salvaje, è di Candaya, una casa editrice spagnola), da me tradotta con l’amico – di più, hermano – e collega Marino Magliani. Potete seguire tutto questo e altro ancora sul mio blog http://giovanniag.wordpress.com (con racconti, articoli e interviste in italiano, inglese e spagnolo – e presto, spero, anche in francese).



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