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Il piccolo Vincenzo crebbe in una casetta di campagna e frequentò la scuola del paese. Il rude ambiente scolastico contribuì parecchio a forgiare il suo carattere facendo di lui l’originale personaggio che sarebbe in seguito divenuto. I compagni di classe, figli di contadini e operai, non ebbero alcun riguardo nei suoi confronti. Tutto iniziò sin dal primo giorno di scuola quando gli venne chiesto: “Come ti chiami?” Lui rispose: “Mi chiamo Vincenzo ma… ci sono anche Edoardo Alfonso e Gustavo”. “Vicinzì …ma chi sono questi altri tre?” – commentò qualcuno fra le risate generali. Lui cercò di impressionare l’uditorio spiegando che era un bambino privilegiato in quanto portava tanti nomi illustri ma l’unica cosa che ottenne fu la ‘nciuria”, cioè il soprannome, di “Vicinzì cu l’avutri tri”. Insomma le premesse per il futuro del piccolo Botta non erano le migliori. Il suo rendimento si mantenne sempre al di sotto della media e riuscì a stento a prendere il diploma. Il padre lo detestava per la sua inettitudine e il poverino a cui, tra l’altro Madre Natura, aveva negato ogni attrattiva, trovava conforto solo nell’affetto della madre. Purtroppo la donna morì prematuramente lasciandolo in balia di sé stesso. Vincenzo infatti cominciò a manifestare uno strano disagio psicologico che si trasformò in feroce misantropia. Il padre cercò invano di introdurlo in società soprattutto dopo che, alla morte del prozio, il ragazzo aveva ereditato il titolo di Barone. Ciò non fu di grande auspicio per il povero Vincenzo che oltre alla nciuria di “Vincinzì cu l’avutri tri” rimediò anche quella di “Barone Botta di Sale”. Sempre più isolato il giovanotto trascorreva le sue giornate in casa a vedere la televisione concedendosi ogni tanto qualche passeggiata in campagna. Fu durante una di queste uscite che avvenne l’incontro fatale. La vide all’improvviso. Lei bellissima e tutta bianca sembrava una nuvola soffice adagiata sul prato verde. Lui le si accostò rapito. La mucca smise di brucare e gli rivolse uno sguardo languido. Fu in quel preciso istante che Vincenzo si sentì trafiggere il cuore. In quegli occhi fu sicuro di rivedere quelli grandi e dolci della sua compianta madre. Da quel giorno iniziò ad uscire regolarmente per incontrarsi con l’animale che aveva nel frattempo chiamato “Isabella”. L’idillio durò per un paio di mesi tra il divertimento dei contadini della zona. Un brutto giorno però lui non vide la sua amata. In preda alla disperazione cominciò a cercarla per tutta la contrada, domandò in giro e comprese o credette di comprendere che Isabella, colpevole di quell’amore, doveva essere giustiziata, in realtà la mucca doveva solo essere macellata perché non faceva più latte. Vincenzo si recò subito al Macello comunale per scongiurare l’esecuzione. Fu tutto inutile. Sotto i suoi occhi atterriti il corpo martoriato di Isabella venne trascinato su un volgare furgone. “Dove la portano?!” – chiese lui tra le lacrime. Qualcuno gli disse che la carne degli animali macellati quel giorno sarebbe stata destinata alla conservazione. Vincenzo allora promise a sé stesso che a qualsiasi prezzo avrebbe ricomposto il cadavere della sua povera Isabella per darle giusta sepoltura. In preda alla sua ormai lucida follia iniziò a frequentare i supermercati della città e dei centri vicini. Lattina dopo lattina acquistò una quantità spaventosa di carne in scatola, regolarmente bovina, che accumulava nella sua stanza da letto al primo piano di Palazzo di Salì. Ormai tutti i commessi lo conoscevano e tutti sapevano che il Barone Botta di Sale non veniva certo a fare la spesa ma stava compiendo un dovere funebre. Laura Mancuso
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