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Innanzi tutto c’è la contemporaneità, ossia un’aderenza completa alla società attuale segnata da una crisi economica pendente sulle nostre teste; c’è poi la classica istantanea di metropolitana alienazione orientale (Daniel dirà a Kafka che fin dal primo momento che l’ha visto ha capito di quanto fosse solo); vi è inoltre l’ombra quanto mai minacciosa della droga che si prende l’onere del titolo, e infine l’architrave della pellicola, ovvero l’amore, ma un amore per così dire “diverso” perché avvertito tra alti e bassi da due uomini agli antipodi, uno ricco e colto (Daniel), l’altro spiantato e ignorante ma soprattutto non ancora completamente conscio di quale sia il suo orientamento sessuale.
Ebbene, se tali elementi sono rintracciabili, è però mia opinione che essi non abbiano amalgama né dosaggio soddisfacente nella strutturazione dell’opera. Nell’ordine: che la crisi finanziaria ci sia è un dato di fatto, che venga qui rappresentata mi sta bene, ma la superficialità unita a un accantonamento abbastanza rapido mi fanno pensare più ad un’operazione atta ad attirare l’attenzione (un film che parla della crisi? Wow!) piuttosto che alla voglia reale di incastonarla all’interno dello spartito. In riguardo alla condizione esistenziale dei due uomini non c’è molto da dire poiché sono due ritratti già sentiti in migliaia di altre storie: il denaro che non è sinonimo di felicità, l’appagamento effimero nel possedere degli oggetti (la Ferrari gialla di Daniel), la sensazione di essere soli anche in mezzo alla gente, insomma, niente di nuovo davvero. Per quanto concerne il tema della droga ci inoltriamo nel mistero più incomprensibile non foss’altro perché il titolo è proprio un farmaco il cui abuso lo inscrive nella categoria, e perciò attendersi un riguardo particolare all’anfetamina era più che lecito, invece i problemi di Kafka nei confronti di questa sostanza vengono appena appena accennati in qualche occasione fino alla superflua scenetta dell’incarcerazione. La dipendenza poteva essere una “buona arma” per non afflosciare la narrazione esclusivamente intorno al legame sentimentale, invece ciò che accade è proprio questo.
La storia così eros-centrica diviene sul piano dei contenuti artefatta e particolarmente indotta, la metafora del ponte interrotto è carina se suggerita ma non se urlata, cosiccome l’immagine dei due che fanno insieme bungee jumping e a nulla serve chiedersi come diavolo hanno fatto poi a ritornare su coi piedi per terra. In generale questa liaison fatica a trovare un riscontro empatico in chi guarda a causa dell’insistente sottolineatura delle componenti che dovrebbero, appunto, formare un rapporto.
Le cose migliorano se si parla di linea, o meglio delle linee estetiche che percorrono Amphetamine.
Scud compie un lavoro diversificato che alterna cinema melò con sottofondi struggenti a sfacciato erotismo a volte sfociante nella tragedia (lo stupro ai danni di Kafka) altre volte nella carnalità (i corpi glabri che si intrecciano) senza mai eccedere in volgarità gratuite. I due estremi inoltre sono costituiti da un’apertura con un moderno Cupido in bilico sul vuoto e da una chiusura con i due innamorati che nuotano in una sorta di liquido amniotico, immagini che si faranno ricordare a lungo, al pari dell’ossessione simbolica di matrice tsaiana verso l’acqua che ritorna continuamente durante la visione e che figurativamente, ahimè, ne diluisce anche la sostanza di cui vorrebbe essere costituita.
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