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Anche le femministe piangono?

Da Femminileplurale

Un contributo in vista di Paestum 2013

 

It seems we loose the game before we even start to play  (L. H.)

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Know Hope, (A)part and intertwined (Farham, UK)

Ho trent’anni, non ho partecipato alla grande (oramai mitologica?) stagione del femminismo italiano, perciò nei confronti di essa provo deferenza e rispetto, ma non ne temo la schiacciante autorità.

Non porto il peso di quello che è rimasto oggi di quel cammino che pareva meraviglioso e che pareva inarrestabile. Rispetto quel passato che è anche fortunatamente presente. Lo considero un’eredità da riprendere e da far rifiorire anche però a costo di sconvolgerlo, anche a costo di rivoltarne teoreticamente la sostanza. Ma lo considero anche un’arma, con cui pensare soluzioni ai problemi delle nostre vite.

 Uno dei problemi fondamentali che sentiamo come urgenti, forse il più urgente, è il problema delle condizioni materiali di vita. Il riferimento alla questione era presente già nella lettera di invito a Paestum 2012, ma essa non è stata tematizzata, privilegiando altri argomenti avvertiti in quel momento come più interessanti e pressanti.

 Ed è proprio su questa gerarchia di urgenza a mio avviso che, se c’è, si innesta lo scontro intergenerazionale. Donne di generazioni nuove spesso vivono una vita completamente diversa dalle cosiddette “storiche”. Diverse fondamentalmente per la mancanza di sicurezza economica.

 Il lavoro, la sua mancanza o la sua precarietà, è il maggior problema mio e di moltissime (la maggior parte) delle mie coetanee.

Spacciato come effetto della crisi, esso è invece esito previsto di processo iniziato ben prima del 2008: il colpo di coda di un sistema capitalista e neoliberista che sta piano piano richiedendo (o riprendendosi) indietro tutta quella serie di diritti conquistati da lavoratrici e lavoratori nelle lotte di un passato nemmeno così lontano. Diritti, conquiste che scivolano via lasciando donne e uomini sempre meno cittadine e cittadini sempre più dominate e dominati.

Nessuna però parla di questo.

Se c’è una crisi a cui stiamo assistendo, essa è la crisi dello stato, sacrificato in nome della finanza; osserviamo, alcune incredule, la condizione comatosa di uno Stato che ha tradito i propri cittadini e si fa portavoce e garante di un sistema economico che prospera chiedendo a noi salatissime corvè. Gli esseri umani sono merci di scambio, ma oggi – a differenza del passato – ciò è permesso sotto le false insegne della libertà personale e della libera scelta e diviene perciò del tutto a-problematico.

Nel felice connubio tra sistema economico capitalista e patriarcato sono le donne (e spesso non solo le “giovani”) a subire maggiormente il peso di questa situazione.

Viviamo in un sistema complessivo di dominio economico, sociale e culturale che viene ipocritamente nascosto ed ignorato.

Per combattere il cosiddetto precariato, definizione che andrebbe ridiscussa perché circoscrive (e dunque minimizza) il problema che invece è diffuso e strutturale, si invoca una soluzione oramai divenuta “classica”: quella del reddito di esistenza (o di cittadinanza). Misura che non convince. È come combattere la violenza contro le donne con un disegno di legge. Se il problema è strutturale, per generare cambiamento è necessario modificare la struttura, agire sugli effetti serve solo a creare una tregua temporanea, ma non serve a intaccare le cause, distruggerle e porre le basi per un modello di sviluppo nuovo.

Siamo disposte, in quanto femministe, a vivere sotto il dominio schiacciante dell’economia capitalista? Possiamo pensare a pratiche politiche radicali e femministe che possano in qualche modo scalfire tale sistema o per lo meno dare respiro ad una vita condizionata dalle preoccupazioni economiche? Il Primum vivere dell’anno scorso e il Libera ergo sum di quest’anno non vogliono significare anche questo?


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