Tranquilli: Greenleaf di Flannery O’ Connor è finito. Queste sono solo riflessioni “sparse”, non troppo interessanti ma che al termine di questa lettura, credo sia importante riportare.
- Non è necessario viaggiare. Spesso si sente dire che viaggiare apre la mente, e via discorrendo. Sono la persona meno adatta a confermare o smentire (sono un pantofolaio incallito), ma siccome nella scrittura non ci sono regole, nemmeno nella vita si può seriamente imporre di fare una cosa. Se la testolina è chiusa, andare a Pechino non renderà l’individuo migliore, e costui tornerà criticando la pizza margherita mangiata colà. Greenleaf è ambientato in una fattoria del sud degli Stati Uniti. Flannery O’ Connor in vita sua ha viaggiato pochissimo. Credo però che abbia letto molto, e soprattutto pensato molto.
- Non è necessario avere vissuto esperienze straordinarie. Tutti o quasi sono persuasi che occorra avere alle spalle esperienze sublimi, eccezionali, straordinarie. Il racconto di Flannery O’ Connor è qualcosa di banale. In fondo si tratta solo di un toro che scappa dai suoi padroni, finisce nel terreno della protagonista e finisce con l’incornarla. Fine.
- Usa quello che possiedi. Una delle scuse che scova lo scrittore esordiente è che purtroppo non abita nella metropoli tentacolare che offre infiniti spunti, altrimenti sarebbe già decollato. Come no. Questo si chiama “alibi”. Tutte le storie di valore scritte sino a oggi trattano di: esseri umani e conflitto. Stop. Sono due ingredienti presenti sia a Brooklyn che nel deserto libico. Se lo scrittore esordiente non riesce a trovarli, è perché lui guarda ma non osserva. Una brutta faccenda.
- Non temere di mostrare un senso. Di questi tempi è di moda cercare di proporre una letteratura che presenti i fatti e che si guardi bene dal proporre una lettura della realtà un poco più profonda. Per supplire a questa mancanza, si chiede l’impegno: quindi appelli su appelli, con l’autore indotto a sposare tutte le buone cause presenti sul globo terracqueo. Ciascuno si regola come si vuole, si capisce. Occorre però ricordare che il terreno sul quale chi scrive è chiamato a misurarsi è la pagina scritta, la sua, non quella redatta dagli estensori di appelli. E la sua pagina non può essere sempre e solo cronaca. Deve essere letteratura. Arte.
- Non avere paura dell’arte. Siccome bisogna evitare con cura di andare in profondità, il termine “arte” viene bandito con rigore. Come ricorda Flannery O’ Connor: arte significa (per lei) confezionare qualcosa di valore ed efficace. Anche questo scopo “minimo” viene volentieri bandito perché se si stabilisce un valore, secondo alcuni si fa opera di discriminazione verso quelli che ne seguono altri, oppure non ne hanno alcuno. Quindi, niente valori così siamo tutti uguali. Ma gli esseri umani non sono detersivi che devono restare allineati uguali sullo scaffale, per la gioia della società mercantile nella quale siamo immersi. Sono ben differenti gli uni dagli altri. Ci sono i geniacci come Tolstoj, poi quelli bravi, quelli così così…
Ovvio che via sia anche parecchio altro. Il bello di un racconto, o un romanzo, è che poi un lettore ci trova significati che l’autore ignorava. Come si dice? La storia deve essere migliore di chi la scrive, solo così si diventa “classici”.