di Michelangelo Zizzi
Scrivere una prefazione ad Andrea Leone è come andare a vedere uno spettacolo nell’anfiteatro Flavio dopo aver inalato in una sola inalazione tutto il tabacco incatramato di una camel senza filtro, il giorno dopo quello in cui Cesare stravasò con arti divinatorie il Rubicone.
Da lente contrade meridionali dove la resistenza ai bivacchi cartesiani delle metropoli è, per chi scrive, una sosta tra alcoli ingurgitati in un fiato e agone inattuale di gioco di carte di vecchi seduti ai tavoli, l’opera di Andrea Leone vi entra come il pistolero nel far west, il temporale estivo, la rete all’ultimo minuto di una finale mondiale.
‘Lezioni di crudeltà’ ricorda che la poesia esige un’epica, uno stato di travaso dalla solita sonnolente plaga in cui s’affossa con la zappa delle avanguardie e dello sperimentalismo per tutto il ‘vecchio’ Novecento.
Così del mondo (moderno) del quale, secondo il tempo verbale dell’imperativo di Leone e non il tempo al presente, è possibile il solo catalogo del collasso, l’auspicio (proprio nel senso forse involontario di un aruspicino) è riconoscere la bellezza fuori dal canone d’ogni algoritmo: la bellezza come numero / che nessuno ha mai calcolato; / uno spavento perfetto, / cresciuto nel crepuscolo dei corpi, / e tutte le feste delle scomparse / e del presente che foste.
Questa controlezione sul ‘modo’ del moderno, questo spostamento verso il centro incalcolabile dell’essere stato al mondo (già al passato), questo riconoscimento della metà di caso (il non essere leggibili, neanche all’interno della più deflagrante metafora della poesia data in endecasillabi: Ragazza che la perfezione ammala) e della metà di necessità – fatum rappresenta il modo più franco di ‘vedere’, nel senso della visione, di ‘sentire’ nel senso di un meditazione cardiaca la poesia oltre il cronotropo della relazione di un ‘qui ed ora’.
Il presente imperativo della poesia di Leone è il futuro imminente del ritorno d’epica (Ora perché si compia / ciò che fu promesso un tempo), la sua misura è la grandezza incalcolabile ma nitida (Noi sentimmo dunque / il nostro intero viaggio terreno / nell’abbraccio di un giovane / cielo di esattezze estreme; Bellissimo è soltanto / ciò che è incomprensibile. / La pelle delle perfette / primavere ci insegnò / il dovere di morire. / Il volto nuovo ci colpì / un giorno d’aprile / all’inizio della dimora), il suo ritmo sia la perfezione all’interno del corpo, che l’aritmia e l’entropia nella relazione col corpo del mondo esterno.
Nella poesia di Leone, come nella migliore tradizione italiana, c’è la ‘pax iuxta’ dopo il confliggere di una lotta necessaria. Ed è per questo che l’autore, per potenza stilistica ed orientamento del ‘modo’ a nostro parere tra i migliori della storia della poesia degli ultimi decenni, deve essere considerato ‘classico’.
Non il classicismo di un Quasimodo, modulato secondo le note silvestri della canna di Pan virgiliana, né quello della limpida moderazione d’immagine di un Penna; ma quello marziale, fondativo e iniziatico (involontariamente nel caso di Leone) di un Orazio delle odi, degli sitlnovisti, di un Nietzsche e persino, seppur senza coniugazioni lessicografiche, di un D’annunzio, senza dimenticare alcune sequenze sintagmatiche degne del miglior Campana.
Va da sé che l’epos di Leone non è il colpo di dadi dato al tavolo – teatro del post-moderno per eccesso di citazione: in quel tavolo dove i commensali satolli dal lusso delle correnti socialdemocratiche e liberaldemocratiche hanno appena finito di sorseggiare l’amaro.
Vogliamo dire che l’epos di ‘Lezioni di crudeltà’ nulla a che vedere con la necessità sociologica di rivedere le categorie della letteratura : come hanno fatto, ad esempio, qualche anno fa i Wu Ming, che sono un gruppo di borghesucci bolognesi animati dall’infaticabile regia della semiosi echiana, quando hanno riproposto una letteratura d’epica.In ‘Lezioni di crudeltà’ non vi è infatti macchina semiotica; e non vi è perché il poeta è la poesia e non fa la poesia; del resto semiotizzare il mondo è il risultato di un distacco avvenuto con esso; del resto la semiosi nasce dal sistema di democratizzazione dei segni: ed invece i veri poeti sono antidemocraticci, antidemocratici soprattutto rispetto a s stessi.
L’epos di Leone è il risultato del distacco, dell’assenza, dell’estraneità ad un cronotropo. E se pure vi sussiste, il che è vero, un certo compiacimento autodeterminato in questo distacco, nondimeno può negarsi che esso non ha nulla di emulativo, bensì di veritativo ed autentico.
Se Leone assomiglia, oltreché alla tradizione italica migliore, a certa poesia mitteleuropea, per esempio nell’aspetto dell’algida celebrazione di un lutto non del tutto spiegabile, vi assomiglia per concordanza interna e non per postura attoriale.
Poiché quello che questa poesia inattuale e discesa dalla bocca delle idee (eidòs) o degli Dei ha un pieno di imminenza tragica (Feste della fine, / miracolo morente calcolo / gli errori, gli annali / dei troppi nomi corrotti) e ineluttabile ed un vuoto di semiosi.
Solo nell’azione e nella prassi (nell’evento dunque e nell’attenderlo dunque) c’è abolizione della semiosi, la quale vogliamo ricordarlo, esiste solo nella relazione tra sé ed un altro.
Ecco l’ulteriore elemento di distacco dal fare poetico dell’officina novecentesca e postmoderna: la poesia di Leone è conchiusa in sé, non è dialogica, ma monologica: come la parola degli Dei essa detta e agisce, ovvero registra e ‘vede’ ciò che è avvenuto. Tale dinamica sottrae la stessa poesia al destino di reperto e di autoconsumazione.
Nel punto focale in cui Leone appare pervaso dalla possibilità di essere nella macchina attoriale, è smentito dalla stessa poesia che è in questo autore una necessità e non un’opzione. I frequentissimi lemmi ‘malattia’ e ‘crudeltà’ e le loro forme derivate, agiscono in quest’opera come la cartina al tornasole che svela verità e non come pulsione neurologica e biografica alla messa in scena della morte e del lutto.
Anzi, per smentire ogni ossessione moderna alla biografia, alla ‘propria’ biografia, diremo che questa poesia è tutt’altro che biografica persino laddove compare in anafora il termine ‘io’: io sono il delirio dei nomi estremi. / Io sono le insegne del tempo / che fu straniero. / Io sono la feroce / festa che si dissolve.
Quell’io moltiplicato, fuorché essere compulsione egopatica, è limpidezza d’ambire ad una migliore aristocrazia del sentire – vedere ogni cosa.
La poesia di Leone è originale perché ontica, imperativa e senza scampo, perché essenziale.
L’urgenza dell’essenziale non ammette slittamento, né modo, perché la forma riposa in sé e non in un’altra forma.
Sontuosa è l’opera di Leone per questo ‘non eliminabile’, questo non addizionabile né sottraibile che sta nell’essenziale; a differenza della biografia che è solo uno dei modi per raccontare una vita specifica e quindi qualcosa che può slittare, diminuirsi o aggiungersi proprio perché ‘spostata’ sempre, per ogni volta.
‘Lezioni di crudeltà’ ha il suo oggetto non oscillante non vicariante che è la poesia stessa, non riferita più ad altro: la vita in sé: Dèi perfetti di una nascita / una sola volta amata!
Andrea Leone, Lezioni di crudeltà , Poiesis editrice (2010)