Ci sarebbe piaciuto immensamente parlare della Festa del Pd a Torino, degli “ultras” della politica e delle ragioni per le quali i soliti facinorosi dei centri sociali (sic!) e qualche operaio incazzato abbiano deciso di dire basta alle buone maniere passando ad altre strategie pur di farsi ascoltare. Avremmo voluto parlare dei fischi a Schifani il quale, a proposito di chi non risponde mai neppure sotto tortura, invece di chiarire quali fossero i suoi rapporti, da avvocato, con mafiosi e collusi, ha chiesto al giornale che l’ha scritto 750mila euro per danni non smentendo nessuna delle notizie riportate. Avremmo voluto parlare dei fischi (e un trictrac) a Bonanni che, immemore della tradizione sindacale del nostro paese, basta che Marchionne fischi e lui è lì pronto con lo stecco in bocca pronto a far giocare il suo padrone. Avremmo voluto parlare dei dirigenti del Pd che continuano a chiamare “squadristi” quelli che fischiano (e lanciano trictrac) invece di comprenderne le ragioni e dar loro voce e una piccola speranza ma, a fronte di tutti questi temi di “sinistra”, ci troviamo a compiere un passo indietro e tornare al 1979, anno in cui un anonimo “eroe borghese”, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, venne ucciso sotto casa perché non prono e accomodante ai desiderata del bancarottiere e mafioso Michele Sindona. Dobbiamo per forza di cose tornare al 1979 perché il Corriere della Sera di questa mattina titola: “Ambrosoli? Se l’andava cercando”. A pronunciare questa frase bruttissima, violenta e crudele (considerata la fine tragica di Ambrosoli) è il “Divo” Giulio Andreotti e gli italiani potranno ascoltarla questa sera nella puntata di La storia siamo noi di Giovanni Minoli, dedicata appunto a Giorgio Ambrosoli. Secondo “il Divo”, l’avvocato milanese avrebbe fatto del tutto per essere ucciso, praticamente l’olocausto di se stesso. Ma facciamo un passo indietro. Michele Sindona, uno spregiudicato uomo d’affari al quale il caffè fa un male della madonna, esce dall’anonimato a seguito delle sue manovre finanziarie “americane”. Negli anni ’60, Sindona scompagina Piazza Affari con alcune operazioni che lo segnalano immediatamente all’attenzione dell’alta finanza e, ovviamente, della politica. Opa, conglomerate, “private equity”, Sindona costruisce un vero e proprio impero fino a quando lo stesso Andreotti, che non nasconde le sue simpatie per il banchiere siciliano, non lo definirà il “salvatore della lira”. C’è da dire che Sindona ha altri amici, in alcuni casi più potenti dello stesso “Belzebù” e sono amicizie che invece di nascondere, si onora pubblicamente di avere. Alla loro testa c’è la famiglia Gambino, della premiata ditta “Gambino Gangster’s & Co.”, ma non mancano altri nomi di spicco della mafia italo-americana. Come spesso accade quando il successo diventa inarrestabile, inizia a subentrare la sindrome da onnipotenza (cfr Silvio Berlusconi), e puntualmente si finisce per fare qualche cazzata di troppo. Nel 1971 infatti, Michele Sindona tenta la scalata alla Finanziaria Bastogi avversata con tutte le sue forze dall’onnipotente Enrico Cuccia fondatore e capo indiscusso di Mediobanca. Sindona fallisce in America e, a ruota, segue il suo impero italiano nonostante “mezza Italia” politica, economica e clericale tenti in tutti i modi di salvarlo. Sulla sua strada, a porsi di traverso, trova però l’unico organismo che avrebbe potuto salvarlo, la Banca d’Italia. Il Governatore Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli dicono che quel salvataggio non si può fare e anzi, nominano Giorgio Ambrosoli, uomo integerrimo, commissario liquidatore dell’impero sindoniano. A spingere per il salvataggio di Sindona sono soprattutto gli andreottiani che arrivano, con il braccio destro del “Divo” Franco Evangelisti, a proporre un piano che però la Banca d’Italia rigetta. Il risultato di questo rifiuto sarà che Sarcinelli finirà in galera e al Governatore Baffi sarà d'aiuto l’età per non finire dentro anche lui. Le loro colpe? False accuse costruite ad arte. Nel frattempo la mafia e la P2 iniziano a minacciare l’avvocato Ambrosoli. Le minacce si fanno di giorno in giorno più pesanti ma Ambrosoli non cede. A quel punto c’è un’unica soluzione: ucciderlo. È quello che accade la notte dell’11 luglio 1979. Sindona assolda il killer in America. Si chiama Joseph Arico, costa 50mila dollari, e per essere sicuro di non sbagliare obiettivo prima di sparare dice: “Mi scusi, avvocato Ambrosoli”. In una sorta di lettera testamento scritta a febbraio, Ambrosoli disse alla moglie: “Pagherò a caro prezzo questo incarico”. Mutatis mutandis, i killer non arrivano più dall’America ma li abbiamo in casa, non sparano colpi di pistola ma titoli di giornale in prima pagina. Non telefonano più per minacciare ma falsificano dossier. Quale sia in fondo la differenza non ci interessa più di tanto, mica si muore solo fisicamente, vero senatore a vita Giulio Andreotti?
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Andreotti su Ambrosoli: “Se l’è cercata”. Belzebù non si smentisce
Creato il 09 settembre 2010 da Massimoconsorti @massimoconsortiPossono interessarti anche questi articoli :
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