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Creato il 16 maggio 2013 da Mente Libera

Spiegazioni mistiche – (Nietzsche)

Le spiegazioni mistiche sono considerate profonde; la verità è che non sono neppure superficiali.

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Una decisione pericolosa. (F. Nietzsche)

La decisione cristiana di ritenere il mondo brutto e cattivo ha reso il mondo brutto e cattivo.

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L’uomo Folle (Nietzsche)

Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che, nel  chiarore del mattino, accendeva una lampada, andava al mercato e gridava  incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». Poiché molti di coloro che si  trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. «Si è forse per-  duto?», disse uno. «Ha smarrito la strada, come un bimbo?», disse un al-  tro. «O forse si è nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?»  E così gridavano e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li tra-  fisse con lo sguardo. «Dov’è andato Dio?», gridò. «Ve lo dico io. L’abbia-  mo ucciso noi, — voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come abbia-  mo fatto? Come siamo riusciti a bere tutto il mare, fino all’ultima goccia?  Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbia-  mo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? Ma in che  direzione si muove, adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Lontano  da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all’indietro, di lato, in avan-  ti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo at-  traverso un nulla infinito? Non avvertiamo l’alito dello spazio vuoto? Non  fa più freddo? Non scende di continuo la notte, sempre più notte? Non oc-  corre accendere la lampada anche al mattino? Non sentiamo il frastuono  dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore  della putrefazione divina — anche gli dèi si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dèi  noi stessi, per essere degni di lei? Non c’è mai stata azione più grande — e  chi nasce dopo di noi appartiene, in virtù di questa azione, a una storia più  elevata di quanto non sia stata la storia fino ad oggi!» A questo punto il  folle tacque e riprese a osservare i suoi ascoltatori: anch’essi tacevano,  guardandolo estraniati. Infine egli gettò per terra la sua lampada, che andò  in mille pezzi e si spense. «Sono venuto troppo presto», disse poi, «non è  ancora l’ora. Questo evento enorme è ancora per strada, in cammino, —  non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno bi-  sogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le azioni hanno bi-  sogno di tempo, anche dopo essere state compiute, per essere viste e udite.  Questa azione è ancora più lontana degli astri più lontani, — eppure sono  stati loro a compierla!» Si dice anche che il folle, quello stesso giorno, sia  penetrato in diverse chiese e vi abbia intonato il suo Requiem aeternam  deo. A chi lo conduceva fuori e cercava di farlo parlare, rispondeva sem-  pre: «Che cosa sono ormai queste chiese, se non le tombe e i monumenti  funebri di Dio?».

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Rimorso di coscienza del gregge (F. Nietzsche)Nelle epoche più lunghe e remote del-  l’umanità il rimorso di coscienza era ben diverso da quello odierno. Oggi ci  si sente responsabili soltanto per quello che si vuole e si fa, e si trova il proprio orgoglio in se stessi: tutti i nostri maestri di diritto prendono le mosse  da questo senso di sé e da questa sensazione di piacere del singolo, come se  fossero questi, da sempre, ia sorgente da cui è sgorgato ogni diritto. Ma  per tutta l’epoca più lunga dell’umanità non c’è stato niente di più temibile  che sentirsi singolo. Essere soli, avere una sensibilità individuale, né ubbidire né dominare, significare un individuo, — questo allora non era un piacere, ma una punizione, essere «individuo» era una condanna. La libertà  di pensiero era il disagio per antonomasia. Mentre noi avvertiamo legge e  inserimento come danno e coercizione, allora era l’egoismo una cosa dolorosa, una vera pena. Essere se stessi, valutarsi secondo criteri e pesi propri:  questo era allora contrario al giusto. Un’inclinazione in tal senso era considerata follia, perché all’essere soli erano associati ogni miseria e terrore.  Allora la «libera volontà» aveva la sua cattiva coscienza in quanto gli era più prossimo: e quanto meno liberamente si agiva, tanto più dall’azione  parlava l’istinto del gregge e non la sensibilità personale, tanto più ci si riteneva morali. Tutto ciò che nuoceva al gregge, che il singolo lo avesse voluto o meno, faceva provare al singolo rimorsi di coscienza — e anche al  suo vicino, anzi a tutto il gregge! Soprattutto a questo proposito abbiamo  modificato completamente le nostre convinzioni.

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Effetti postumi della più antica religiosità. (F. N.)

Le persone spensierate credo-  no che ad agire sia soltanto la volontà; volere sarebbe cosa semplicissima,  data, inderivabile, comprensibile di per sé. Costoro sono convinti che  quando fanno qualcosa, ad esempio assestano un colpo, sono loro a colpi-  re, e hanno colpito proprio perché volevano colpire. Non se ne fanno un  problema: la sensazione della volontà è loro sufficiente non soltanto per  presupporre causa ed effetto, ma anche per essere convinti di comprendere  il rapporto intercorrente tra le due cose. Del meccanismo dell’evento e del  lavoro immane e delicato che deve essere svolto per giungere a quel colpo,  nonché del fatto che la volontà, di per sé, è incapace di svolgere anche la  benché minima parte di tale lavoro, essi non sanno niente. La volontà è per  loro una forza che agisce magicamente: la fede nella volontà come causa di  effetti è la fede in forze che agiscono magicamente. Orbene, in origine  l’uomo credeva, ovunque vedesse un evento, che sullo sfondo ci fossero  sempre, in quanto causa dello stesso, una volontà agente e un essere perso-  nale capace di volontà: il concetto di meccanicità gli era ben lontano. Poi-  ché gli uomini, per un periodo immensamente lungo, hanno creduto sol-  tanto alle persone (e non a materiali, forze, cose eccetera), la fede nella  causa e nell’effetto è divenuta per loro basilare, e la impiegano dovunque  accada qualcosa, ancora istintivamente, quale residuo di un atavismo di  antichissima origine. I princìpi «nessun effetto senza causa», «ogni effetto  è a sua volta causa», sembrano generalizzazioni di princìpi molto più ri-  stretti: «laddove c’è un’azione, c’è stata una volontà»; «si può agire sol-  tanto su esseri capaci di volontà»; «non si dà mai un mero patire un’azio-  ne, privo di conseguenze, ma ogni patimento è un eccitamento della volon-  tà» (verso azione, difesa, vendetta, rivalsa); ma originariamente questi e  quei princìpi erano identici, né i primi erano generalizzazioni dei secondi,  ma i secondi spiegazioni dei primi. Schopenhauer, con la sua supposizione che tutto ciò che è soltanto volontà, ha innalzato sul trono una mitologia  antichissima; non sembra che abbia mai tentato un’analisi della volontà,  perché come tutti credeva alla semplicità e all’immediatezza di ogni volere,  mentre la volizione è un meccanismo così complicato che quasi sfugge al-  l’occhio che l’osserva. Per contro, io stabilisco questi princìpi: in primo  luogo, affinché nasca la volontà, è necessaria una rappresentazione di pia-  cere e dispiacere. Secondariamente, il fatto che uno stimolo vigoroso sia  avvertito come piacevole o spiacevole, dipende dall’intelletto che lo inter-  preta, che però lavora perlopiù a livello inconscio, e il medesimo stimolo  può essere interpretato nel senso di un piacere o di un dispiacere. Terzo:  soltanto gli esseri dotati di intelletto conoscono piacere, dispiacere e volon-  tà: la stragrande maggioranza degli organismi non ne sanno niente.

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 valore della preghiera.(F. N)

La preghiera è stata inventata per coloro che da  soli non riescono a pensare e ai quali l’elevazione dell’anima è ignota o  passa inosservata: che cosa dovrebbero fare costoro nei luoghi santi e in  tutte le situazioni importanti della vita, che richiedono calma e una qual-  che dignità? Affinché quanto meno non disturbassero, la saggezza dei fon-  datori di tutte le religioni, piccoli o grandi che fossero, ha imposto loro le  formule della preghiera, un lungo lavoro meccanico delle labbra associato  a uno sforzo della memoria e a un contegno egualmente obbligato di mani  e piedi — e occhi! Che, come i tibetani, mastichino innumerevoli volte il  loro om mane padme hum oppure, come nel Benares, contino sulle dita il  nome di Dio Ram-Ram-Ram (e così via, con o senza grazia), oppure vene-  rino Visnù coi suoi mille nomi o Allah coi suoi novantanove, che si servano  di mulini di preghiere o di rosari — il fatto più importante è che, con que-  sto lavoro, rimangono composti per un certo tempo e offrono una vista  tollerabile; il loro tipo di preghiera è stata inventata per salvaguardare quei  devoti che sono autonomamente capaci di pensieri ed elevazioni. E persino  costoro hanno le loro ore di stanchezza, in cui trovano benefiche una serie  di parole e suoni venerandi e una meccanica devota. Ma presupponiamo  che queste persone rare — all’interno di ogni religione le persone religiose  sono un’eccezione — sappiano far da sé: i poveri di spirito non sanno far  da sé, e proibire loro il borbottio della preghiera significa privarli della lo-  ro religione, come fa ogni giorno di più il protestantesimo. Da costoro, in-  fatti, la religione vuole soltanto che mantengano la calma, con occhi, ma-  ni, gambe e organi di ogni genere: così per un po’ diventano più belli e —  più simili agli uomini!

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