La Francia. Lo sappiamo, l’adagio suona più o meno così: il sistema produttivo cinematografico d’oltralpe è particolarmente virtuoso, ragion per cui destina cospicue risorse per il finanziamento del settore e, in particolare, per la realizzazione delle opere prime. Meglio evitare un confronto, dagli annunciati esiti sconfortanti, con la realtà italica, il cui lamento, intonato ormai da più di un ventennio, ha raggiunto vette non più umanamente sostenibili.
Angèle e Tony dell’esordiente Alix Delaponte (in precedenza ha diretto alcuni cortometraggi) è un film essenziale, asciutto, contenuto anche nella durata, che, nel suo minimalismo, ricorda, in chiave edulcorata, il cinema trattenuto e ‘ruvido’ dei Dardenne e, per l’ambientazione e la caratterizzazione dei personaggi, il primo Guédiguian, quello de La ville est tranquille per intenderci. La forza della recitazione degli attori costituisce un elemento decisivo per la riuscita della messa in scena, agevolando non poco il processo di sottrazione predisposto in fase di scrittura della sceneggiatura.
Angèle (Clothilde Hesme; tra i film di cui è stata interprete sono da segnalare Les mysteres de Lisbonne, del 2010, di Raoul Ruiz e Les amants régulier, del 2005, di Philippe Garrel) è una giovane madre che ha da poco perso il marito in un incidente stradale di cui – nel film non si forniscono ulteriori indicazioni – è stata ritenuta responsabile. Uscita dal carcere deve ricostruire la propria vita e, soprattutto, il rapporto con il figlio che non vede da due anni. Grazie ad un’inserzione matrimoniale incontra Tony (Grégory Gadebois; La frontière de l’aube, del 2008, di Garrel), un pescatore della zona (siamo nella regione della Normandia), anch’esso reduce da un recente lutto per la morte del padre. È un uomo onesto, semplice, con una grande forza interiore, capace di arginare l’intempestività del carattere della protagonista. Si assiste quasi ad un’inversione dei tratti di genere, per cui all’aggressività e alla mancanza di grazia di Angèle si contrappongono la pazienza e la disponibilità all’accoglienza di Tony che, invece di cedere agli appetiti smossi dall’intraprendenza della ragazza, si contiene in un pudore volto a dilatare in tempi adeguati il processo di avvicinamento di due anime solitarie e bisognose di reciproco sostegno.
Sullo sfondo si staglia la piccola comunità costiera in cui s’introduce Angèle, sulle prime un po’ diffidente, ma poi decisiva nel realizzare il processo d’integrazione all’interno del quale giunge a maturazione il rapporto dei due protagonisti. Non sveliamo l’esito finale, ma non possiamo evitare di segnalare una certa commozione prodotta dalla visione di alcune sequenze. Da ricordare quella in cui Angèle cerca di parlare con il figlio, dopo che quest’ultimo si è chiuso in bagno: la porta che li divide diventa lo schermo su cui le loro mani si poggiano, cercando un contatto forse ancora prematuro.
La working class della penisola normanna costituisce il luogo di un evento non ascrivibile solo ai diretti interessati, ma prodotto nel quadro più ampio di una comunità che fa sì che ciò che eccede l’ordinario accada. Insomma, volendo fare una piccolissima riflessione finale, non è inopportuno affermare che la crisi attuale dei rapporti può essere superata solo ricollocando il problema all’interno di un quadro comunitario rinnovato, in cui ciascun componente è convocato, con il suo apporto, a veicolare la produzione di soggettività dei singoli; altrimenti non resta che continuare a rimpinguare le finanze di qualche principe della psicanalisi (magari fissato con la “sindrome da deficit di accudimento”).
Luca Biscontini