Andava per gli otto anni quando sua madre le disse che l’indomani mattina sarebbe andata “fora “, in campagna, con Zia Cummara. E la scuola? chiese con la coscienza di quella che stava scampando ad una disgrazia per miracolo. Non serve che tu vada a scuola, le rispose Rosaria. Sei capace di mettere la firma, aggiunse, e fare i conti, io non so fare neppure quello. E poi sei femmina, concluse senza aspettarsi repliche, non ti serve la scuola. Angelina condivise silenziosamente il pensiero di sua madre e pensò allegramente alle compagnucce che, il giorno seguente, avrebbe incontrato al Farneto. Zia Caterina, la sua madrina di battesimo, venne all’alba. Rischiarava appena e ancora assonnata, senza lavarsi nemmeno, si infilò gli abiti e le scarpe grosse che erano state di suo fratello, ormai passate di numero a lui, ma grandi per i suoi piccoli piedi. Zia Cummara le diede fretta avevano tanta strada da fare a piedi; l’asino con il basto serviva a caricare la legna e non bisognava stancarlo con il loro peso già al mattino. Così camminarono in silenzio, fianco a fianco, ognuna immersa in pensieri simili. Avrebbero caricato piccoli pezzi di legna che il bosco regalava spontaneamente, fascine che servivano ad appiccare il fuoco nei camini, piccoli focolai intorno al ceppo più grande che avrebbe covato il fuoco per qualche ora; la grande pensava a quanta legna avrebbe potuto barattare con le vicine, in cambio di cibo per sfamare i figli piccoli rimasti a casa, Angelina allo stesso modo, avrebbe dato in cambio le sue fascine per cibo, adesso che erano tanti in casa e ” tata “, papà, era ” all’Africa Orientale Italiana ” a fare la guerra. Arrivate che furono, si accorse che le mamme si erano date voce: le sue compagne erano quasi tutte lì, nel bosco. Mancavano le ricche, Carmilina la figlia del podestà, Elviruccia, Assunta e quelle che la domenica si sedevano in chiesa nei banchi dei nobili. Vociando come cinciallegre si salutarono e presero posto vicino alle grandi che le avevano portate lì. Ognuna fu istruita su come muoversi nel bosco per evitare che i serpenti, appena usciti dal letargo, potessero colpirle. Fu detto loro quale legna prendere, come formare le fascine, come evitare che i rovi potessero impigliarsi nei poveri abitucci o rigare loro le gambe con segni brucianti. Prima intimorite, poi sempre più sicure, cominciarono la loro prima giornata di lavoro, cantando le canzoni che la maestra aveva loro insegnato e ripetendo a turno le poesie fasciste, con l’assurdo pensiero che se non le avessero richiamate alla memoria, quelle si sarebbero disperse come uccellini impauriti dal rumore del vento tra i rami. Tornò a casa con le gambe rigate di sangue rappreso e i piccoli piedi indolenziti e pieni di vesciche a causa degli scarponi induriti dal fango e dall’uso che ne aveva fatto suo fratello. Da qual giorno seppe che non si lavora in campagna o nei boschi senza infilare le calze pesanti estate ed inverno; fu la prima importante lezione di sopravvivenza, quella che, insieme a tante altre, le avrebbe permesso senza che ne avesse una vera consapevolezza di guadagnarsi da vivere in piena indipendenza. Ma era una femmina, fondamentalmente una femmina, dipendente dalla volontà di una madre onnipresente così come in seguito sarebbe stata dipendente da un uomo, suo marito.
Arrivò l’ambasciata. Fu zia Caterina a portarla a sua madre. Ormai s’era fatta femmina grande nei campi, ogni giorno, insieme a quelle cresciute con lei. S’era fatta grande e formosa, con le trecce che ancora portava sciolte. Zia Cummara venne e disse a Rosaria che c’era un giovanottino rimasto vedovo da poco, senza figli. Aveva spiato le due figlie più grandi di Rosaria e, con rispetto, avrebbe accettato quella che lei stessa avrebbe voluto dargli come sposa. Rosaria senza battere ciglio rispose a Zia Cummara che la primogenitura della femmina non si metteva in discussione, Angelina era tra le prime due la più grande dunque si sarebbe maritata per prima. Francesco arrivò a casa della sposa la prima domenica del mese di maggio, imbracciando un cesto pieno di uova freschissime che le sorelle gli avevano consigliato di portare. Contornata dai piccoli di casa, che ridevano nascosti dietro alla sua veste, Rosaria prese e ringraziò. Poi si disposero intorno al tavolo della cucina. La Cummara – come già Francesco la chiamava – e suo marito tornato dall’Africa da una parte, Angelina vicina ai genitori, Francesco imbarazzato nonostante non fosse nuovo ai rituali del fidanzamento, dalla parte opposta. Rosaria venne subito al dunque, concretizzarono la dote, il numero degli incontri prima del matrimonio, la modalità degli incontri, la data del matrimonio. Francesco dichiarò con una certa solennità di essere disponibile a sposarsi subito, ma Rosaria fu irremovibile: dovevano passare almeno sei mesi perché lei potesse sistemare la figlia così come previsto. Qualche lira da parte c’era, avrebbe comprato la tela fine da Tutino alle Paoline. Rosinella, la figlia più piccola le avrebbe ricamate, Angelina con lei. Adesso che era promessa sposa non sarebbe più andata nei campi. A sentir questo ad Angelina prese male. É vero, anche alle altre era capitata la stessa cosa, appena promesse non erano più tornate ” fora “, ma lei sperava di scamparla così come, tanti anni prima, le era capitato con la scuola. Non provò neppure a ribellarsi, con sua madre ogni protesta risultava come schiantarsi nel dirupo, dall’alto del castello del Principe. Un volo spettacolare ma inutile, poiché dava come risultato una morte certa. Con sua madre non si moriva fisicamente ma il cuore sì, quello moriva per la durezza delle parole che la madre serbava per le figlie, nate femmine e quindi buone solo per la casa e il letto. La stessa sorte che era toccata a lei. Ogni giorno ricordava a se stessa, con disappunto, la malasorte di essere nata senza gli attributi che invece aveva per carattere e si rinnegava, dura nei modi soprattutto verso le figlie. Con i maschi non indulgeva alla tenerezza, ma il rispetto sì quello lo garantiva anche al marito che, secondo lei, era buono solo a farle fare figli, uno dietro l’altro; e ormai ne avevano tanti e stentavano a sfamarli ogni giorno. Angelina dovette raccogliere le trecce in una corona intorno al capo, ora che non era più schietta, ma promessa sposa. A casa, con sua sorella vicina che tesseva o ricamava, si intristiva. Rimpiangeva l’aria dei campi, le cummarelle, le risate, le battute che i giovanotti potevano permettersi solo con la promiscuità di un lavoro che non conosceva differenze di sesso, se non nella divisione delle mansioni, le femmine i lavori più leggeri e i maschi quelli più pesanti. Ma non era sempre così, non lo era stato durante la guerra, quando anche le femmine avevano mandato avanti, da sole, le fattorie, il raccolto nei campi. Un po’ era risentita verso quel giovanottino con i baffi che una volta alla settimana veniva a trovarla a casa, sorridendo timido, impedito a rivolgerle altre parole se non quelle convenute dai ruoli e dalla presenza di Rosinella, la sorella più piccola, che seduta tra i due, vigilava sulla virtù della sorella più grande. Rosinella era l’arbitro, così la chiamava Francesco, desideroso di sfiorare la mano della sua promessa sposa, almeno qualche volta.
Francesco al mattino le disse che sarebbe andato al lavoro con la corriera. Costruivano una strada vicina al paese e lui vi faceva il manovale. Avevano bisogno che lui lavorasse con costanza, adesso che la famiglia era cresciuta, sei figli e la più piccola nata da poco. Angelina assentì distratta. Doveva andare dalla vicina a farsi prestare un poco di crescente, per impastare il pane durante la notte seguente perché fosse pronto per infornarlo appena fosse fatta mattina piena. Quella famiglia così piena di bocche da sfamare era il suo cruccio quotidiano; c’era sempre un figlio che reclamava cibo, un figlio che sollecitava, Ohi ma’! il richiamo che la perseguitava anche di notte. Ma era contenta del padre dei suoi figli, così premuroso e tenero con tutti loro, diverso dagli altri uomini del paese che passavano il tempo libero all’osteria ad ubriacarsi. La sera le scioglieva le trecce e le massaggiava i piedi e le gambe, per il tempo che le ci voleva ad addormentarsi stanca più dei giorni in cui andava ” fora ” con le compagne sue. Come si divertivano quando Francesco, d’estate, toglieva gli abitucci ai figli e distribuiva loro una fetta di mellone rosso ghiacciato dall’acqua del pozzo, dopo averlo spaccato sul tavolo con un colpo solo. I bambini golosi mangiavano sporcandosi con il succo dolce che scivolava dalle loro piccole bocche, incapaci di contenere la polpa strappata a gran morsi. Sorridevano felici alle voci che Francesco faceva. Potevano mangiare e sporcarsi senza che la madre avesse di che rimproverarli, era una festa, era estate, e Francesco, dopo averli ripuliti per bene, si divertiva a solleticar loro le guance con quei baffetti sottili sottili. Passò sotto casa la moto di un compagno di lavoro che fece voce, Vieni a lavorare? Francesco era incerto se accettare. Angelina si sarebbe squietata se avesse saputo che era andato con quello, spericolato come un demonio. Ma Angelina era fuori e lui disse al compagno di aspettarlo che sarebbe sceso presto. Chiamò la figlia più grande e le raccomandò tutti gli altri piccoli, fino all’arrivo della madre. Si guardò attorno con la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Poi prese il pane ripieno con i peperoni cruschi che Angelina gli aveva preparato prima di uscire di casa. Dalla strada raccomandò a Teresa di non fare voci con la madre della sua partenza sulla moto. La figlia sorrise, felice di avere in serbo un segreto con quel padre ragazzino come loro. Angelina che aveva fatto un’altra strada nel rientrare a casa sentì solo il rombo della moto che si allontanava. Chiese alla figlia dove fosse andato Francesco, e quella le rispose che si era avviato a prendere la corriera. Quando il camion che veniva di fronte lo fece volare per aria e atterrare qualche metro più in là, Francesco non ebbe neanche il tempo di pensare che in quel momento, la sua testa che batteva sull’asfalto, aveva fatto lo stesso rumore del mellone che lui apriva con un colpo solo, un rumore che partiva sonoro e finiva come di acqua che scorre, il molle contenuto nell’involucro duro delle ossa. Finì in un istante, tutto volò via, i figli, Angelina. Lo portarono a casa verso sera con la testa composta in un giro bianco d’ovatta. Angelina si strappò i capelli e si disperò rigandosi il volto con le unghie così come i rovi avevano fatto alle sue gambe bambine la prima volta nel Farneto. Venne di nuovo Zia Cummara e le disse di aver parlato con il caporale. Appena ne avesse avuto voglia – che di necessità ne aveva, adesso che era rimasta l’unica adulta di quella nidiata di pulcini da sfamare – poteva tornare nei campi come nella vita precedente. Le compagne l’accolsero come sapevano i primi giorni vicine, poi sempre più distanti. La malinconia di Angelina appestava l’aria e toglieva la voglia di cantare a tutte. Nella piana, sotto il sole di luglio, mentre raccoglieva le pesche, Angelina pensava con nostalgia a quel marito ragazzino. Erano stati insieme il tempo di sei figli, troppo poco, troppo presto era andato via. Nel raccogliere l’ultimo frutto della giornata, il più maturo, in cima all’albero, contese il suo nettare ad una vespa che sfiorandole la mano la punse. Angelina non vi badò, scese dall’albero ed ebbe difficoltà a respirare. Pensò alla stanchezza e al caldo della giornata; gli altri erano lontani e la gola le si chiudeva sempre più stretta in un nodo che non le permetteva di gridare. Poco prima di perdere conoscenza le sembrò che Francesco le venisse in aiuto chiamandola, Angelina vieni, andiamo a casa. Fu il nulla. La pesca rotolò sul terreno e la vespa le camminò sul viso indisturbata, nessuna mano si levò a cacciarla.