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Angoscia tedesca: Intervista a Andreas Marschall

Creato il 11 dicembre 2013 da Fascinationcinema

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La Germania può essere considerata la culla del cinema oscuro e orrorifico, in cui la corrente artistica dell’espressionismo ha dato vita a capolavori come Il gabinetto del Dr. Caligari (Robert Wiene, 1920) e Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau (1922), vere e proprie basi portanti nella storia del filmico spaventevole. A parte qualche eccezione (Al di là dell’orrore, di Victor Trivas, 1959), gli anni ’60 sono stati per lo più caratterizzati dai cosiddetti krimi movies, ispirati ai racconti di Edgar Wallace: crime stories spesso a tinte forti, alcune delle quali vedevano nel cast un giovane Klaus Kinski, titoli come Edgar Wallace e l’abate nero (Franz Josef Gottlieb, 1961) oppure L’artiglio blu (Alfred Vohrer e Samuel M. Sherman, 1967).

Si deve arrivare agli anni ’80 per assistere a quella che è stata considerata la nuova ondata tedesca, caratterizzata da pellicole ad alto tasso di gore e violenza: ne è precursore Uli Lommel (già pupillo di Fassbinder) che nel 1980 realizza Mirror – chi vive in quello specchio?, finito sotto la longa manus della crociata video nasties nel Regno Unito. Ma è solo alla fine del decennio che il nuovo horror germanico alza prepotentemente la testa: Jörg Buttgereit (Nekromantik, 1988) ne è il rappresentante più celebre e talentuoso, seguito da nomi come Andreas Schnaas (Violent shit, 1989) e successivamente Olaf Ittenbach (Premutos, 1997).

Il nuovo millennio sta, fortunatamente, riportando alla ribalta le sponde teutoniche, grazie a registi come Marvin Kren, austriaco di nascita ma attivo in Germania, autore dell’interessante zombie movie berlinese Rammbock (2010), e soprattutto Andreas Marschall, che ha firmato i notevoli Le lacrime di Kali (2004) e Masks (2011), entrambi densi di tributi al cinema italiano di genere. Nel primo figura Peter Martell, ossia Pietro Martellanza, volto assai noto agli amanti degli spaghetti western (Il pistolero dell’Ave Maria di Ferdinando Baldi, 1969) il secondo omaggia Mario Bava e il miglior Argento, con forti echi da Suspiria (1977), restando al tempo stesso opera personale e originale.

Marschall è ora all’opera su German angst, film a episodi nel quale figurano anche Michal Kosakowsi, autore di Zero killed (2012) e Jörg Buttgereit al suo ritorno dietro la macchina da presa: è dal 1994 infatti, anno in cui girò Schramm, che è lontano dai set – eccezion fatta per la commedia Captain Berlin vs Hitler (2009) sconosciuta ai più – lasso di tempo in cui si è dedicato alla regia teatrale. Abbiamo colto l’occasione di questo nuovo progetto per fare qualche domanda ad Andreas Marschall, regista tedesco con la passione dei cult italici.

 

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Com’è nato il progetto per German angst e in che modo si è sviluppato?

L’idea per German angst mi è venuta in mente quando vidi Theatre bizarre e ABCs of death. Ci sono in giro molti film collettivi in questo periodo – forse perché mentre i budget si riducono ai minimi termini, i registi vogliono comunque girare e i produttori tentano dunque di creare delle sinergie. Quando portai Masks in giro per festivals, nel corso dei Q & A (n.d.r. le domande del pubblico al regista, solitamente a fine proiezione) moltissimi mi chiedevano il motivo per cui Buttgereit avesse smesso di girare film. Jörg, per molto tempo, ha rifiutato tutte le offerte per tornare a dirigere, poichè al momento si sente più a suo agio nelle vesti di regista teatrale. Lo conosco da molto tempo, oltre 20 anni, da quando disegnai la locandina per Nekromantik: sono dunque riuscito a persuaderlo nel tornare dietro alla macchina da presa per uno degli episodi del film. Dopoichè, conobbi Michal Kosakowski (Zero Killed) ad un festival in Transilvania e diventammo amici. La squadra per German angst era dunque al completo.

Ci diresti qualcosa sul segmento da te diretto, Alraune, e di come lo collocheresti nella tua filmografia, sia dal punto di vista della trama che da quello del visivo?

Alraune porta avanti le tematiche che ho esplorato nei miei film precedenti. Sarà un tributo alle radici del cinema fantastico tedesco – Lang, Murnau ma in chiave moderna. Anche questa volta, userò tutte le mie consuete tecniche al fine di affascinare lo spettatore e trascinarlo nella storia, sperando, questa volta, di avere più tempo a disposizione per preparare il film e un budget un po’ più alto.

Alraune parla di una società segreta di stampo fetish: le tematiche del culto e della setta sono centrali nel tuo cinema, sia ne Le lacrime di Kali che in Masks, focalizzandosi su metodi portati alle loro estreme conseguenze: la meditazione nel primo film, l’insegnamento della recitazione nel secondo. Come nasce questo interesse?

Quando, negli anni’90, ho lavorato col mio amico (e collaboratore) Sammy Balkas al suo gangster movie intitolato Track (1999), sono entrato in contatto col famoso insegnante dell’Actors Studio (Metodo Stanislavski) John Costopoulos, il quale utilizzava tecniche psicologiche di impatto assai forte al fine di liberare la creatività dell’attore. Ciò mi affascinò moltissimo, e mi condusse negli ambienti dei gruppi legati alle pratiche di autocoscienza, sperimentando molto con tecniche psicologiche ed eventi fuori dal comune. Ho indagato a fondo nella storia del movimento New Age, trovando alcuni interessanti gruppi estremisti attivi negli anni ’70, periodo in cui molti occidentali cercavano la salvezza dell’anima in India e nella spiritualità induista. E’ stata per me una sfida stimolante svelare il lato oscuro della New Age, in quanto era stato usato di rado nei film horror. E’ strano notare che ogni qual volta si è tentato di migliorare e perfezionare l’essere umano, nella maggioranza dei casi sono stati creati dei mostri.

Nutri una grande passione per il cinema italiano di genere, gialli e spaghetti western in primis, e sono spesso omaggiati nei tuoi film: in che modo questo interesse così forte ti ha portato a diventare regista, dunque ad avere un ruolo attivo nella realizzazione?

Sono letteralmente cresciuto con il cinema italiano di genere: negli anni ’70, mi recavo a Roma il più spesso possibile per vedere i nuovi film di Argento e Fulci, sui grandi schermi di quelle bellissime vecchie sale. Persino nel piccolo cinema di Trevignano (n.d.r. Trevignano Romano, provincia di Roma), paese in cui i miei genitori avevano un appartamento, ogni settimana venivano proiettati un paio di nuovi poliziotteschi o gialli italiani. Era l’età dell’oro del cinema di genere europeo e avevo nel sangue la passione per questa cinematografia estrema. Gli artisti attingono sempre dalle proprie esperienze infantili e delle giovinezza, nel mio caso, dal punto di vista delle influenze filmiche, sono state determinanti le pellicole italiane di quel tipo, oltre al cinema di genere tedesco degli anni ’70, in particolar modo i film di Alfred Vohrer tratti da Edgar Wallace.

Ognuno di voi tre è conosciuto per i suoi film molto peculiari, ma in modi assai diversi: pensi che la vostra collaborazione in German Angst influenzerà ed arricchirà i rispettivi lavori?

Siamo completamente differenti, ma questo crea delle sinergie interessanti. Parliamo molto, aiutandoci a vicenda, ma il nostro lavoro sul film risulta spesso in netto contrasto – il che è il punto più interessante. Ci sono, tuttavia, delle tematiche similari nei nostri episodi, cosa non intenzionale, ma che mostra tre visioni del mondo completamente diverse.

Hai già in cantiere dei nuovi progetti dopo questo film?

Sto lavorando a tre nuove sceneggiature al momento e sono coinvolto come regista in un altro progetto. Ma è impossibile dire, ora come ora, quale fra questi sarà il primo a vedere la luce.

 

Chiara Pani

 


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