Ventotto settori in pavè. Le anime della Roubaix sono troppe per essere scritte tutte quante: polverose, con il cuore intangibile come quei sassi che l’hanno resa regina sopra tutte. Ventotto strade che tagliano i campi immensi come silenziose ferite e che portano in una sola direzione. Un velodromo che per un giorno è il tutto. Un anello di legno che abbraccia senza dire una parola tutti quelli che hanno attraversato quella corsa maledetta. La Roubaix ha l’anima in fiamme, come direbbe Bukowski.
Mancano cinque chilometri soltanto quando Niki Terpstra esce dal gruppo. Aremberg, Mons-en-Pévèle, il Carrefour de l’Arbre sono già lontani, mostri tranquilli che si sono presi le loro vittime ma non hanno fatto la differenza. Ne manca solo uno di settore, l’ultimo, poco prima del boato del velodromo, ma non fa paura come gli altri, è solo una passerella prima della gloria.
Cinque chilometri. Sono pochi e sono tanti, soprattutto quando dietro c’è un gruppetto con Fabian Cancellara, Sep Vanmarcke, Peter Sagan e John Degenkolb. John è quello che pochi si aspettavano di vedere lì, tra i grandi: è un velocista e sa stringere i denti per stare sottoruota anche in salita ma questa non è una corsa come le altre, la strada non si impenna mai ma il pavè ti distrugge, gambe e testa. John è lì, insieme ai favoriti e non molla un momento. Forse in lui c’è la stessa sensazione che proviamo quando riusciamo a essere meglio di quello che credevamo, a fare qualcosa che non pensavamo possibile con le nostre sole forze. John è lì e sa che se arriveranno tutti insieme al velodromo, quell’ultimo giro di pista sarà il suo trionfo, che la velocità ce l’ha nelle gambe come l’aria nei polmoni.
Quando sguscia via da quel gruppo, invece, Niki sa che la sua unica possibilità è arrivare da solo. E’ un passista, la sua terra gli ha insegnato ad amare le corse dure. Sa che quei cinque chilometri possono essere la sua salvezza. Niente si può prevedere, nel ciclismo. E’ uno sport dove le tattiche si possono frantumare in pochi secondi, con una foratura, una caduta, una gamba che non gira. Forse nessuno crede in una vittoria di Terpstra dopo che tutti hanno regalato le loro stelline a Cancellara, re dei favoriti. Pochi si scaldano per un’azione che assomiglia a quella decisiva, nessuno si muove per andarlo a riprendere.
Niki fa un vuoto che viene riempito dai secondi: otto, poi nove, dieci. E’ troppo semplice, forse qualcuno crede che si possa ancora andarlo a riprendere. Ma Niki vola, pedala senza sosta, accumula secondi e lascia gli ultimi chilometri dietro di sé. E’ senza fiato e forse anche senza pensieri. Cosa si può pensare a un chilometro da Roubaix, quando il vantaggio è quasi sicuro e lo sforzo è così immenso da non farti sentire più le gambe? No, non è stata un’azione da lontano, non ha avuto il tempo di riflettere su sé stesso, su quello che stava facendo. Un guizzo improvviso, infiammato dalla strada tremenda che si è lasciato dietro di sé. No, non c’è tempo per nessun pensiero, adesso. Il cervello è nelle gambe, è tutto lì. La bocca spalancata per la fatica è un urlo senza voce, i muscoli tesi soffrono per quello che hanno vissuto e per il nervosismo di quella vittoria che deve arrivare per forza. Deve arrivare.
L’ultimo tratto. Quella passerella che è quasi come un tappeto rosso e ha inciso, pietra su pietra, i nomi di chi ha domato questa corsa aspra come un cavallo senza padroni. Il velodromo è un boato, un grido infinito fatto di mille e mille altre grida. L’ultimo giro, la campanella che tra tutte quelle voci è quella più dolce. E’ finita. Qualche metro è sarà finita, questo viaggio di polvere nera sarà un ricordo. Ma Niki ancora non ci crede, non crede di essere il solo: si volta, nessuno l’ha raggiunto. La linea bianca è lì, semplice come tutte le cose semplici. E ha attraversato l’Inferno prima di arrivarci. Grida, alza le braccia. Il suo conto è chiuso, quel terzo posto dello scorso anno mal digerito non è più niente. Polvere, solo polvere. Come quella che ha sulla faccia: maschera impietosa che la Roubaix lascia come un marchio distintivo, che si infila nelle rughe della fatica e le segna come una matita cattiva. Abbraccia la sua compagna, Niki, ed è forse un primo contatto con la realtà ma la sua espressione spaesata, i suoi occhi ancor più azzurri e ancor più grandi nel viso scavato dallo sforzo sembrano vivere in un’altra dimensione. E’ strano come la fatica e il dolore siano subito percepibili mentre la felicità è sempre qualcosa che va metabolizzata, ci si deve abituare per gradi. Forse è così anche per lui che con quel sorriso un po’ accennato sembra voler riflettere, cacciare lo stordimento di quell’istante, dirsi che ce l’aveva fatta davvero. “Che cos’è, per te aver vinto questa gara” gli chiedono. Ma lui non sa rispondere. “A dream…just…just a dream” ripete come se volesse trovare altre parole per spiegare. Non ci sono, Niki. Ti hanno chiesto troppo. E’ troppo spiegare cosa significhi arrivare da solo nel velodromo più famoso del mondo, dopo aver fatto chilometri e chilometri per quelle strade emergendo dalla polvere, cercando disperatamente di mantenere la velocità costante per non sentire troppo male, pregando perché le ruote resistessero a quelle pietre aguzze. Forse le avrai dentro di te, questa sera, prima di addormentarti ma non si potranno dire. E’ la legge: per le cose più belle non ci sono spiegazioni, devi sentirle. Come il vento, come un profumo.
Sul podio, su un gradino più in basso del suo, sorride John Degenkolb. E’ felice del suo secondo posto. Di una felicità che quasi commuove per l’umiltà che la accompagna. E’ un risultato che forse nemmeno lui si aspettava ed è per questo che ha alzato il pugno dopo la linea bianca. “No, non mi sono sbagliato” chiarisce ridendo. “Sapevo che c’era Terpstra davanti e che era davvero troppo forte oggi. Ho alzato la mano perché sono contento di quello che ho fatto: ho lasciato dietro tutti i grandi favoriti e questo secondo posto è molto importante per me.”
Che strana la felicità, ha tante anime anche lei. Ha il volto sorpreso e incredulo di Niki Terpstra mentre alza il blocco di pavè della vittoria. Ha il sorriso appagato di John Degenkolb mentre saluta il velodromo dal suo secondo posto, sbracciandosi come un bambino. E’ strana e forse bisogna farci l’abitudine. Perché la Roubaix è un po’ il manifesto del ciclismo: abitua al dolore, spezza le ossa, regala lezioni dure che bisogna per forza provare sulla pelle. Eppure regala gioie improvvise come un guizzo, come uno scatto. E’ un viaggio, questa gara, che assomiglia al nostro. Al finale siamo sempre impreparati. Certi abbracci ci paralizzano. Forse perché li abbiamo aspettati così tanto che, quando arrivano, sembrano impossibili. E’ tutto vero, Niki. Te ne accorgi ora, magari, mentre ripensi al velodromo che adesso sonnecchia stanco. Te ne accorgi solo ora, mentre le voci ritornano a gridare nella tua mente e quei ventotto settori tornano silenziosi. Perché delle cose belle ci si accorge nel silenzio, non bisogna affannarsi pensando che esistano parole che le spieghino. Ha l’anima in fiamme la Roubaix e oggi gli è piaciuto un ragazzo magro con gli occhi tra il grigio e l’azzurro, come il cielo tra gli alberi di Aremberg.