Anita Nair, La ferocia del cuore
Come si regola un traduttore quando deve decidere se il buco che la vittima ha in testa ben piazzato sul cranio, come risulta dall’esame autoptico, è una frattura lineare, composta o depressa, anche detta fracture a la signature, con infossamento del tessuto cranico e la deve descrivere nella sua lingua con l’appropriato linguaggio tecnico? Capita di scoprire, nelle sue ricerche, che in Arabia Saudita lo scontro fra cammelli è una causa piuttosto comune di incidenti, con un alto tasso di mortalità e morbosità e può succedere che un bimbo di quattro anni subisca, a causa di un simile scontro fra questi eleganti animali, una frattura cranica depressa. O che l’accidentale caduta di una noce di cocco sulla testa possa causare una frattura depressa. Così si documenta con tutta una serie di foto impressionanti tratte dai trattati di medicina legale. Ma mai tanto impressionanti quanto quelle di ferite lineari inferte da arma da taglio, con i bordi della ferita ben netti e perfettamente combacianti.
Così questa volta, traducendo questo ultimo romanzo di Anita Nair, mi sono trovata ad entrare in una stazione di Polizia di Bangalore, in un obitorio, dove sono stata ad osservare il medico legale che dissezionava un cadavere, in una sala per interrogatori, dove la Polizia, seguendo metodi più moderni e rispettosi dei diritti umani, estorce ai fermati una confessione a suon di pranzetti succulenti.
L’India è un paese dalle mille contraddizioni e dai mille volti. Sono molte le facce dell’India che i film, la letteratura, la cronaca e allo stesso tempo i luoghi comuni ci riflettono. Anita Nair ha scelto, nei suoi libri, di narrare soprattutto le contraddizioni tra un paese dalla storia e dalla cultura millenaria e una nazione che la nuova economia e lo sviluppo delle tecnologie ha reso competitivo e vincente di fronte a un Occidente in declino.
Lo scarto brusco che la convivenza tra questi due aspetti genera è visibile soprattutto nella condizione femminile. La ricca nuova borghesia dell’India che si affaccia sul futuro imita l’Occidente nello stile di vita e negli atteggiamenti. La condizione femminile delle signore e delle ragazze della nuova India si sta lentamente occidentalizzando e a volte rinnega le proprie radici culturali. Il che, se è un bene per l’emancipazione della donna, non è sempre un bene per lo sradicamento che può produrre. Questo accade soprattutto in chi confonde la cultura occidentale con il progresso e la modernità. I manager rampanti, i businessmen che stanno trasformando il paese in una superpotenza economica. Non poca parte ha avuto in questo il dominio britannico e non vi sono dubbi che l’India, che ha creato la civiltà a cui l’Occidente molti millenni fa si è abbeverato, si trova a doversi liberare dai crismi di una cultura postcoloniale.
Ci sono tuttavia intellettuali, artisti, scrittori che proseguono sulla via che la Grande Madre India ha sempre percorso da millenni: inglobare e abbracciare ciò che proviene dall’esterno per amalgamarlo e accoglierlo trasformato.
Il conflitto tra antico e nuovo, tra queste due forze, genera, per dirlo con termine della fisica, una turbolenza.
In quasi tutti i suoi romanzi Anita Nair ha cercato di leggere questa turbolenza e gli effetti che essa provoca nel mondo femminile.
La particolarità di Anita Nair come scrittrice è quella di esplorare un microcosmo – il suo Kerala nativo – con mezzi sempre nuovi e diversi. In situazioni sempre diverse.
Ma, in questo ultimo romanzo – Cut like Wound nel titolo originale – che verrà presentato a Mantova al Festivaletteratura, l’ambiente non è più la dimensione del villaggio ma, come in parte nel precedente, L’arte di dimenticare, è la megalopoli in cui lei stessa vive: Bangalore.
Il titolo originale, Cut like Wound, è un termine tecnico, usato in patologia forense, “ferita lineare” in italiano, che sta a indicare quel tipo di lesione nitida e allungata inferta da un mezzo tagliente. Già il titolo originale indica che si tratta di un noir, quello che in inglese si chiama whodunit. C’è un ispettore, Gowda e il suo vice, Santosh. Il primo è un uomo di mezza età, burbero, che ha combattuto tutta la vita contro la corruzione e le ipocrisie e che per questo si trova ora ai margini. E’ uomo stanco, provato, con molti problemi personali irrisolti, ma ha qualcosa di assolutamente speciale: il suo sesto senso. Infallibile. Santosh è giovane, pieno di entusiasmo, di ideali e ha fatto di Gowda il suo idolo. Poi c’è il mondo corrotto della politica, degli sfruttatori del popolo, di chi accumula enormi profitti grazie alla sua posizione di privilegio, ben rappresentato dal Consigliere, che vive in un palazzo quasi principesco e riceve visite seduto su una sorta di trono. Ma, collegato a quel mondo, ce n’è un altro meno visibile, ma non meno presente, quello dei bassifondi, dei piccoli delinquenti, dei quartieri degradati. E c’è un serial killer. E poi ci sono i dipinti di Raja Ravi Varma, il prodigioso pittore ottocentesco le cui rappresentazioni di dei e di eroi, di fanciulle e di scene mitologiche sono le immagini che ne costituiscono un’iconografia ormai universale e che ha inventato la calendar art. E poi ci sono gli hijra.
Gli hijra, che in India chiamano anche eunuchi, sono uomini che si vestono da donna e si sentono profondamente donne. Il termine significa “colui che lascia la propria tribù”, perché molti di loro venivano rifiutati dalle famiglie di origine. Non sono eunuchi in senso stretto, perché molti conservano tutti gli attributi. Sono una vera e propria casta, con complessi riti e una propria Dea Madre di origine prevedica, la cui presenza in India è attestata sin dai tempi più antichi e in testi quali il Mahabharatha, il Ramayana e il Kama Sutra. Non sono, come qualcuno erroneamente può credere, dei transessuali o dei travestiti nel senso che noi intendiamo, e non c’è nulla, assolutamente nulla in Occidente, a cui si possano paragonare. Gli hijra sono organizzati in comunità, o case in cui una guru, o Maestra anziana ha un ruolo dominante e di cui si riconosce l’autorità. Il numero stimato degli hijra in India è di circa 200.000.
Gli hijra, o chakka in lingua kannada, non hanno diritti e solo di recente è stato loro riconosciuto il diritto al voto. La società non li tratta bene, ma di recente vi sono dei movimenti per il riconoscimento dei loro diritti. Si guadagnano da vivere chiedendo offerte, anche in modo molto insistente, ai semafori, sui treni, nei luoghi pubblici o partecipando a feste, matrimoni ecc. perché la loro presenza è ritenuta di buon auspicio e foriera di fertilità e fortuna. Si vede infatti in loro la perfezione dell’unione tra maschile e femminile, la sacra unione cosmica di Shiva e Shakti che è il cuore del tantrismo. Oggi però molti si prostituiscono per sopravvivere, anche se non è questo ciò che la loro condizione per antica tradizione prevede. Tuttavia alcuni hanno fatto fortuna. Una è diventata una modella di successo, un’altra una donna d’affari importante e qualcuno si affaccia persino in politica.
Ho compiuto un viaggio nel mondo incantato di Raja Ravi Varma, studiandone la vita, le tecniche pittoriche, i suoi soggiorni nel palazzo reale del suo mecenate, i contatti con l’arte occidentale, la sua prodigiosa produzione e la sua visionarietà.
Come l’ispettore Gowda, il mondo corrotto della politica, l’arte di Varma e il mondo misterioso degli hijra si mescoli in questo romanzo, con la presenza di un serial killer i cui efferati delitti sono legati da un filo d’aquilone, starà al lettore scoprire.
Ma, quali difficoltà si presentano a un traduttore nel momento in cui si trova immerso in un contesto che comprende un ordinamento di polizia del tutto diverso dal nostro, esami autoptici meticolosamente descritti in tutti i loro particolari più crudi e tecnici, la mentalità di una creatura così lontana dal nostro modo di vedere le cose quale può essere quello di un hijra? Ed eccomi così alle prese con i manuali e gli ordinamenti della polizia indiana e di quella italiana, a cercare di capire quale grado corrisponde a quale, per scoprire a volte che non esiste esatto corrispondente di un ruolo o di un grado, poiché gli ordinamenti dei corpi di polizia dei nostri due paesi differiscono in molti punti. Eccomi a studiare i gradi e le stellette sulle divise per trovare delle analogie. Eccomi allora andare a compulsare manuali di patologia forense, testi di medicina legale, foto di lesioni e grafici. Eccomi immersa nelle quasi 20.000 foto dai colori meravigliosi del fotografo indiano Firoze Shakir, che da alcuni anni gira l’India documentando e raccontando la vita e le usanze di questa straordinaria comunità. Le potete trovare qui:
http://www.flickr.com/photos/firozeshakir/sets/72157601082804917/
Il lavoro di un traduttore è fatto di conoscenza. Spesso si imparano cose che mai avresti immaginato. Così, tra commissariati indiani, vicoli di Bangalore, l’arte di Varma, corruzione politica, hijra, patologia e psicologia forense, spero di aver reso il fascino di questa detective story avvincente.
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