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Anita Nair, Cuore di Malabar e altre poesie. Tradotte da Francesca Diano

Creato il 01 luglio 2012 da Emilia48

Anita Nair, Cuore di Malabar e altre poesie. Tradotte da Francesca Diano

Anita Nair, Malabar Mind, Harper Collins India

Chi legge la prosa di Anita Nair, una delle più amate scrittrici indiane in lingua inglese, si accorge presto che non è solo una romanziera e prosatrice sapiente, ma può percepire, serpeggiante sotto la robusta struttura dei suoi testi, una vena lirica e poetica che emerge a tratti con grande forza e ruba la scena. Un traduttore, e in particolare chi come me abbia avuto la fortuna di seguire l’autore fin dai suoi esordi, questo lo nota subito. Lo stile si fa immediatamente più alto, cantante e mi è successo, in quelle circostanze, di sentirmi trascinata dalla lingua in una dimensione diversa, vibrante a un diverso registro.

Dunque non deve meravigliare se Anita è anche autrice di testi poetici, che sono stati raccolti e pubblicati per la prima volta nel 2002 col titolo di Malabar Mind (Cuore di Malabar) e l’anno scorso in una nuova edizione per i tipi di Harper Collins India.

Perché questo titolo? Nel testo Anita Nair lo spiega con queste parole: “Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione venne divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, ne’ compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tuttora come uno stato d’animo.” Dunque ho scelto di tradurre mind con cuore e non con mente, poiché quella che celebra Anita è la dimensione non duale della mente/cuore.

I quaranta testi, scritti nell’arco di una decina d’anni, esplorano un mondo che per l’autrice è stato, fin dagli inizi, un potente serbatoio di ispirazione, immaginazione, ricordo e amore, miscelati e cucinati sapientemente nella sua fucina/cucina. Il Kerala è la sua terra natale, dove torna spesso per ritrovare il legame profondo con una continuità mitica e storica a livello personale e non. Il Kerala, stato indiano tra i più alfabetizzati e socialmente progrediti, è però anche un luogo dove vige tuttora una tradizione matriarcale, dove il mito e le divinità prevediche parlano una lingua udibile.

La voce delle poetesse in India, sia in inglese che nelle lingue indiane, è molto presente e non smentisce una tradizione antica. Negli ultimi decenni nomi come quelli di Kamala Das (da me presentata in un precedente post), Eunice De Souza, Imtiaz Dharker, Sujatha Bhatt, Tara Patel, sono divenuti ben noti. I loro versi sono spesso ispirati alla poesia occidentale del ’900, con un’attenzione radicale al ruolo e al sentire della donna e della donna indiana oggi.

I testi della Nair hanno essi pure, è vero, questo sapore naturalista, postmoderno, ma con qualcosa di diverso e di più. Anita Nair non dimentica mai, nemmeno per un istante, la sua origine, il suo legame con la terra natale, gli odori, i colori, i suoni, i racconti antichi. Ed è questo che fa la differenza.

NOTA: Ringrazio di tutto cuore Anita per aver dato un assenso entusiasta alla mia richiesta di pubblicare alcune mie traduzioni delle sue poesie per il lettore italiano. Il suo affetto e la sua ormai ultradecennale amicizia sono per me un dono prezioso.

Cuore di Malabar

Nei suoi occhi il lampo del folle.

“Ciao  Madras, ciao  demoni infernali

Tenetevi le vostre politicanti e le mosche malate.”

Il treno del Malabar ansa e ridacchia.

Guarda questa ragazza, il pazzo guarda,

Le sue curve son meloni maturi

Mi scusi, non so quello che penso,

Posso sfiorarle i piedi?

Per piacere

La mia follia svanirà

Con la tenera brezza.

Lasciatemi andare, non sono matto

Solo deprivato

Perché ho lasciato la grotta di smeraldo?

Il fiume Nila

Rive alte di ghiaia giallastra

Un tempo fioriva il triangolo d’odio

Chi adorava la vacca, chi odiava il maiale

Chi – capelli di sole – la vacca la mangiava.

Nessuno sa come accadde.

Mille uomini pigiati in un vagone

Trasportati e sballottati, soffocavano.

Quando apriron le porte,

Per il puzzo, dicono

La  gente vomitò  per miglia intorno.

In Malabar ancora non dimenticano.

Talvolta la brezza ha il lezzo del sangue.

Lo Zamorin[1] vide il proprio volto

In una scheggia di vetro.

Aprì le porte all’avidità coloniale.

Abbiamo tanto pepe,

Così tante le spezie.

Datele  in cambio per avere  specchi

Deve vivere l’uomo ignaro del suo volto?

Ora i nostri uomini percorrono i mari

Oltre la baia verso Speranza deserta

Su acque stagnanti salpano le donne

Zattere solitarie, filando fibre di cocco, tessendo sogni.

Zubeida, nata in una sudicia capanna

Ora è regina di un palazzo verde

Ogni giorno rivoli di succhi

Di frutta le scorrono sul mento

Che altro si vuole dalla vita? Chiede.

Geeta ha la voce del marito su cassetta

I bambini ogni tanto l’ascoltano

Venu, lontano cugino

Fa l’amore con lei mercoledì e venerdì

Saziando il desiderio e il bisogno di coccole

Le carezza la pelle.

Lei gli lecca le palpebre  e lo incita

A possederla in un’estasi ritmata.

Soltanto finché “lui” non torna a casa,

dice a Dio.

Malibar

Manibar

Mulibar

Munibar

Melibar

Minibar

Milibar

Minubar

Melibaria

Malabria *

Dove la pioggia sibila

L’eco di mille passi

Ciascuno a misurare un cerchio d’umidore.

Dalle grondaie stillano infiniti pensieri derelitti

Lo strombo delle tegole rivela travi a cosce spalancate.

La politica è uno stile di vita

Iscriviti a un partito

Per un’identità

Al Congresso o all’RSS

Ai comunisti o alla Lega Musulmana.

Qui vita ce n’è ancora

Un’aria quieta di serenità.

Nayadi dentro al fango che arriva alle ginocchia

Trattori e bufali a fargli da compagni.

Insieme osservano il tempo passar lento.

E come  si può essere appagati

Sapendo i tuoi diritti?

Militanti si vestono con vesti di insegnanti

La foresta nasconde cuori disincantati

Ad ogni istante incombe la pazzia.

Stesa nella  piscina verde e limpida

A bocca aperta a bere la rugiada,

La concubina del nonno ieri è morta.

Chi gli accenderà la lanterna? mi domando.

Mio padre è ritornato dai suoi vasti giri

Ha costruito una casa e ci ha messo i suoi libri.

Mia madre ama non pensare a nulla.

La grotta di smeraldo ti avvolge consolante.

L’uccello-diavolo piange: puh-ah, puh-ah.

Bacio il mio talismano di peli d’elefante.

Le palme da cocco fan frusciare le dita.

Dicono che il coraggio e la tenera brezza

Curino la pazzia.

Un tempo il Malabar era un distretto britannico. Dopo l’Indipendenza, il Malabar non venne più riconosciuto come distretto e la regione venne divisa a formare la parte settentrionale dell’attuale Kerala. Anche se il Malabar non ha dei confini geografici, ne’ compare sulle carte geografiche dell’India, esiste comunque tuttora come uno stato d’animo.

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[1] Saamoothiri, anglicizzato in Zamorin, era l’appellativo dei  Signori di etnia Nair che governavano il regno di Kozhikode (attuale Calicut, da non confondersi con Calcutta) che fu capitale del Distretto del Malabar. Nel 1498 lo Zamorin  Manavikraman Raja accolse l’esploratore portoghese  Vasco da Gama (N.d.T.)

*  Dal 522 d.C fino all’XI o XII secolo, il Malabar era chiamato anche con questi nomi

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Solitamente  un uomo, a volte un dio

 

Sappilo, donna

Mille soli s’avvolgono al mio braccio.

Marchio  di chi io sono

Solitamente un uomo, a volte un Dio.

Striscianti, predatori

Sento i tuoi occhi

Tracciare segni di tintura vermiglia, di curcuma e di riso

Squarciando la seta bruna della mia pelle.

Donna, sento il tuo tocco.

Macerie di luce:

Densità di una notte senza stelle.

Il mio indice divenuto pennello,

Lampada scintillante oscuro il mio colore.

Quando il tuo sguardo incontra il mio

Nell’arena d’amore ch’è lo specchio,

Mi tremano le mani,

I contorni si sfumano.

Donna, non sai quel che mi fai.

Donna, ho abbandonato la mia pelle.

Ho assaporato l’eternità.

Ed ora cesserò di essere.

Ma prima che tu scemi nel nulla,

Assaporo la linfa della palma da cocco.

Stringo la tazza di terracotta come fosse il tuo mento.

M’inumidisco le labbra alla tua bocca.

Bevo profondamente di questo desiderio proibito e mortale.

La  mia corona è intrecciata d’erba e divinità.

Labbra carnose, labbra bianche, lanugine nasconde la mia bocca d’adultero.

Tendo   l’arco di bambù.

E sollevo la lama scintillante.

Vibrano i tamburi a ridestare  il dio che s’è assopito.

Tremor di cavigliere  mentre l’uomo ch’è in me si ritrae.

Non sono più chi tu hai desiderato.

Sono il tuo protettore.

Il fiero dio Muthappan.[1]

Parla Muthappan:

Io sono il signore della giungla, il figlio dei vitigni torturati

Lesto di piede, leale sino in fondo.

Il cane m’accompagna,

Il cieco Thiruvappan è il mio compagno.

E  nei momenti oscuri di questo tempo

Sarò con te.

A  darti aiuto e consolazione.

A  proteggerti ed a sostentarti.

Guarda, con questa freccia

Che perfora l’occhio del cocco

Io distruggo ogni male

Che ti turbina intorno.

Spicco dal serto della speranza,

Frammenti  perché tu vi costruisca

Tutti i tuoi sogni.

Premo la mano sulla tua testa;

Che i tuoi nervi trasmettano il messaggio

Che mai io t’abbandonerò.

Tutto questo e altro ancora

Farò per te.

Ma prima dentro di me la sete

Spegnerò con latte ancora tepido.

Con il vino di palma che ribolle

Senza fermare il tempo.

Succhio dalla lunga canna di bronzo

Mastico un pezzo di pesce secco

Muthappan è soddisfatto;

Muthappan è felice.

Muthappan ha parlato.

Più non gli sono necessario.

La mia corona del potere è fatta d’erba vizza.

Scorre sulla mia fronte il sale del sudore.

Con dita che un tempo cercarono  perfezione,

Di dosso mi rimuovo la maschera del dio.

Donna, sono di nuovo chi io ero,

Un uomo con la pelle ed occhi

Che cercano i tuoi.

Donna, che al tuo desiderio il mio s’unisca.

Che la mia bocca  sia sigillo alla tua.

Che la mia fame bruci la tua pelle.

Perché ora mi sfuggi?

Perché senti l’odore di selvaggio?

Temi colui che fui?

Ascolta donna,

Io sono un uomo;

Solo talvolta un dio.

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[1] Muthappan, il cui nome letteralmente significa “zio maggiore del padre”, è il benevolo  Dio Cacciatore del Kerala. Il suo culto antichissimo  risale all’India prevedica. Il dio viene fisicamente  impersonato ogni giorno da un uomo che ne indossa i coloratissimi panni e i pesanti ornamenti, che ricordano i più antichi personaggi della danza Kathakali.. In quel momento l’uomo perde la sua natura umana e diventa il dio. Muthappan racchiude la doppia natura di Vishnu e Shiva. Il cane è il suo animale sacro. (N.d.T.)

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Possa tu dormire un milione di anni, Shiva

 

 I

Padrone dell’universo

Signore della distruzione,

Sono di fronte a te

Ma non ti temo.

Hai mai avvertito

Le ossa di tuo figlio pungerti il palmo?

Hai mai sentito

Il pianto perforante della fame?

II

Ho placato

Ormai le  richieste e il mio richiamo.

Ho cantato il tuo nome

Per milioni  di volte.

E tuttavia, certo ritorneranno i miei avi

Vampiri avidi dei resti della mia colpa.

Ché sanno che rinunziando a te

Rinunzio a loro.

III

Più non raccoglierò fiori di campo

A nascondere la tua nera tumescenza

Coi rossi petali della speranza

Che sbocciano, fioriscono e poi muoiono dentro questi cortili.

Non arderanno lampade, tuo occhio che tutto vede.

Non il tuo fiato di canfora strinerà le pareti.

Mai più io fingerò che tu esista.

I tuoi doni, soltanto cenere che mi strozza la gola.

IV

Per un’ultima volta

Mi sono immerso nella piscina verde.

Le lacrime degli uomini prescelti, come fui io, insozzate dal fango.

Per un’ultima volta ho retto il filo che a te mi lega.

E che nel dirti addio così  ti maledica:

Possa tu vivere prigioniero del tuo sonno.

E, quando sarò andato, nessuno ti risvegli

Mai più per te richiamo di campana.

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Un’impronta di Baga[1]

 

I

Fiammeggiante

una linea di giallo

dardeggiò.

Inquisendo

saggiando

l’abisso fiammeggiante.

I fianchi doloranti

le labbra gonfie.

Onde si sollevarono

prosciugano le fiamme

inghiottono il calore,

il seme tumultuoso.

Speranza.

Un desiderio muto

di creare

nutrire

un essere dorato

per un istante breve.

II

Polvere d’ossa calcinate

di qualche antico abisso.

Orlano  l’occhio dell’oceano

arginando le grandi lacrime di sale.

Non scompaiono

nemmeno se inondate

ed a volte sommerse

dalle onde.

Che mai cessano di tentare

la fuga.

Imprigionate

dentro insensati accoppiamenti,

chicco e chicco

e chicco e chicco

ciascuno separato

ciascuno indistinguibile

dall’altro.

Non ricordi.

Non sogni.

Non paure.

Non desideri.

Non pena.

Se gettati

pestati

o trascinati

da un’onda negligente

ancora sono intatti

ancora paghi.

III

Il sole in ritirata

lasciò che il panneggio

del letto dell’oceano

si levasse sempre più in alto

finché ciò

che rimase

fu una chiazza

a macchiare i cieli;

alcune nubi illividite

ricordi alla deriva

di una presenza

persa

ed uno strano vuoto

insopportabile.

Poi

dalle onde

un ponte emerse

tra la terra dei vivi

e la città dei morti.

Incrostato di corallo

di raggi d’oro

racchiuso tra le perle

e sotto pesci a fare serenate

e delfini a danzare.

Dal punto

in cui il sole stillava sangue

dilagava

fino alla punta dei tuoi piedi.

Calpestalo

se osi

dove  vivi e i morti s’uniscono.

Segreti che s’intrecciano

sogni

saggezza

speranza.

Sfiora una guancia

tocca un dito.

Cammina

in un tunnel del tempo.

Solo per un momento

un battito di palpebra

e poi non resta nulla.

IV

Olio d’anacardio.

Barche annerite.

Ricci di mare aculeati.

Ascelle rasate.

Orme sulla sabbia.

Panchine copulanti.

Cozze al vino bianco. Cozze masala. Coppa di conchiglia.

Moto. Vichinghi.

Hippy fatti plutocrati.

Cani addormentati.

Ombre lunghe.

Bambini nudi.

Potenza del vento.

Sale marino. Brezza marina. Mare che azzitta l’orizzonte.

Ascelle pelose.

Cani chiassosi.

Teste ondulanti.

Teli solitari.

Reti da pesca annodate.

Vecchi con voglia di morire.

Onde battenti. Onde arretranti. Onde volventi dal ventre d’oro.

Corvi in picchiata.

Ombelichi perfetti.

Ciabatte di plastica.

Venditori di ananas.

Pescatori che pescano la sabbia.

Sirene in sarong.

Sole stanco. Sole calante. Sole a sognare il mattino.

Due uomini su una roccia.

Scogliere incombenti.

Baia ricurva.

Nube che esplode.

Macchie di sale.

Oceano in una conchiglia intrappolato.

Spiaggia in ombra. Spiaggia coperta di salsedine. Spiaggia addormentata.

Mezzaluna del pube del cocco.

Faro sfavillante.

Mozziconi piegati.

Grugnir di maiale.

Nave fantasma.

Giocolieri.

Sospiro di mare. Sospiro di sabbia. Sospiro di sole.

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Salve lascivia

 

L’avrei dovuta vedere la lascivia quand’è arrivata

Avrei dovuto saperlo a questo punto.

Poiché viene a trovarti

Scuotendo campanelle sulla porta

Profumata di sole, d’erba, di astuti desideri.

Poiché ti striscia una piuma sull’anima

e sommuove il tuo cuore catatonico

ed invia al tuo cervello piccole note ritmiche.

Poiché ti stringe fra le braccia

e soffoca le incertezze quotidiane.

E poi ti fissa negli occhi e ci si pianta.

Poiché nulla promette

e poi ti lascia andare alla deriva

a calcolare il tempo con un mucchietto crescente di “perché”.

Poiché in seguito finge di non esserci stata

e che tutto ciò ch’è accaduto altro non era che uno stato d’animo

che va dimenticato e gettato alle spalle.

____________________________

[1] Baga è una città di mare nello stato di Goa, famosa per  la sua spiaggia dalla sabbia bruna. (N.d.T.)

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Maschera  di bellezza

Con polvere di sandalo e di curcuma

Con yogurt inacidito

E gocce di speranza annaffiate d’acqua di rose

Preparo un volto nuovo e risplendente

Per  questa nuova me.

Con questa maschera esfolierò

 Il passato maculato di  “forse” giallastri

Penetrerò a raccogliere residui di rifiuto

Spianerò vecchi sentieri inutili

E asporterò ogni traccia di deboli elogi devastanti.

 

Traduzione di  Francesca Diano (C) 2012 Riproduzione Riservata 

(C) 2002 by Anita Nair per i testi originali.



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