In neuropsicologia il termine anomia definisce l’incapacità del soggetto nel denominare un oggetto.
Si manifesta nella demenza senile o demenza vascolare, ne ho avuto esperienza in mio padre che purtroppo ne è stato affetto neglli ultimi anni della sua vita.
La difficoltà esistenziale che percepivo era proprio l’impossibilità di relazionare il linguaggio ad un pensiero, un emozione, un idea. Avere nella mente una visione e non poterla associare a nulla che potesse esprimerla con il linguaggio, nulla che potesse essere condivisa nella comunicazione verbale.
Alla fine il suo discorso era astratto, illogico, pieno di ansia e frustrazione. Non mi sono mai reso conto come in questa esperienza quanto fosse necessaria la collocazione delle cose con il loro nome, la precisione, la verità.Perchè dire la verità è sempre usare termini veri, non ambigui, per dirla.
Mio padre era un persona onesta e credo abbia sofferto, nel suo stato etico, per questo.
Viviamo in una società anomica ?
Me lo sono chiesto avendo scritto qualcosa sulla situazione politica italiana che mi ha fatto pensare al termine che Émile Durkheim aveva introdotto in sociologia nel secolo scorso.
Per lui anomia è uno stato individuale oggettivo di carenza normativa dentro il quale è possibile l’atto estremo del suicidio.
La carenza normativa non risponde più alla legge dell’autoconservazione, il più alto paradigma motivazionale per la vita.Nel suo saggio sul suicidio descrive la condizione dell’ebreo nella Francia antisemita, che ebbe il suo culmine con l’affaire Dreyfuss, condizione che pone gli ebrei, anche agiati economicamente, in un costante non riconoscimento sociale.
Dice anche che “lo stato di non regolamento si rafforza perché le passioni sono meno disciplinate proprio quando bisognose di una più forte disciplina”.
Cosa succede nella società odierna, completamente immersa nella comunicazione totalizzante, istituzionalizzata, con orari e format, con retoriche e tic ?
I protagonisti che creano nuovo valore non sono riconosciuti come facenti parte del meccanismo, sono tutt’al più animali bizzarri, osservati da lontano da critici annoiati, arroccati in fortini che sembrerebbero inespugnabili, in una perenne attesa dello scontro finale; un po’ come nel Deserto dei Tartari di Buzzati, dove il racconto si sviluppa nell’attesa dei barbari, del nuovo, dell’orrendamente nuovo.
I barbari premono lungo le pareti osmotiche per entrare in scena ma la loro azione non sfonda la pellicola che li separa dal mainstream, cedono qualche molecola e ne ricevono in cambio altre.
Non riescono ad accedere al Mondo organizzato dalle norme e restano movimento anomico, anarchico e deregolarizzato, senza una sua aristocrazia e gerarchia.
Quei barbari vivono dentro un vissuto perennemente infantile, dove il lavoro è gioco, non retribuito, divertissement, nonserio, nonsense, in eterna versione beta.Dove le norme si autoalimentano facendo riferimento a se stesse senza confronto con il Metodo e collidendo con sempre nuove professioni che esistono nel breve battito di ciglia di chi ne è stato l’artefice.
Oggetti e soggetti che sono alla ricerca di definizioni continue, di nomi sempre nuovi, inventati senza un senso preciso, con l’ambiguo alibi dell’invenzione di marketing, ma che non sono nient’altro che quella demenza infantile, ormai senile, con la quale gli oggetti non hanno più nome.
Oggetti che non hanno più relazioni con il vecchio mondo che ha chiuso al nuovo il ponte levatoio, per un’orrore ancestrale del barbaro violentatore e distruttore.
La distruzione anomica che corre sulla membrana sottilissima che separa i due mondi che non si relazionano più. che non sanno farlo, che non si rendono neppure conto del loro suicidio . Due mondi separati che sulle relazioni hanno costruito la loro essenza.