Dopo Segreti e bugie (1996) e Il segreto di Vera Drake (2004), Mike Leigh torna con un film amaro, in cui sotto i riflettori sono poste le solitudini insuperabili di alcuni personaggi non più giovani, le cui esistenze paiono volgere inesorabilmente al tramonto.
Gerri e Tom (Ruth Sheen e Jim Broadment), la felice coppia intorno a cui girano le vite spezzate di Mary (Lesley Manville) e Ken (Peter Wight), coltivano, seguendo scrupolosamente l’alternarsi delle stagioni, un piccolo orto, e la loro relazione, gestita con altrettanta dedizione, resiste alla caducità dei rapporti in cui invece sono avviluppati gli sfortunati amici.
La perseveranza, l’adesione alla naturalezza dello scorrere del tempo, il ritorno alla terra - baluardo salvifico in un mondo che precipita – sono gli ingredienti della ricetta etica che Leigh ci somministra in più di due ore di visione, tradendo una certa acquiescenza senile. Ci fa piacere che il regista sessantottenne abbia trovato il giusto equilibrio, quello del senno di poi, che permette di assaporare la dolcezza dell’ordinario, ma è troppo facile sedersi su uno scranno, osservando, sostanzialmente imperturbati, e forse vagamente compiaciuti, la disgregazione del mondo. Cercare di analizzare il precariato esistenziale contemporaneo comporta la necessità di elaborare nuove strategie, e arroccarsi su un passato edenico, definitivamente smarrito, si rivela un’operazione reazionaria, miope, narcisistica.
La sequenza finale, in cui la macchina da presa indugia sullo sguardo impietrito di Mary, una donna sfiorita, smarrita, sofferente, rivela un’impotenza che irrita, perché denuncia l’irredimibilità di un’esistenza, consegnandola definitivamente alle fiamme dell’inferno. È un’immagine, questa, che rievoca le insopportabili pagine di Cuore di Edmondo de Amicis, dove il povero Franti, colpevole solo di non riuscire a contenere un surplus d’energia vitale, veniva sistematicamente esposto al pubblico ludibrio, messo alla gogna, schernito senza sosta, e poi definitivamente condannato alla rieducazione di un carcere minorile. Quest’etica del ‘buon padre di famiglia’ è davvero becera, oltre che anacronistica. Oggi la sfida della soggettività si gioca negli spazi sconnessi della metropoli, laddove la cooperazione e la circolazione delle conoscenze, degli affetti, della creatività, scandiscono una temporalità nuova, tutta da interpretare. L’adagio famigliare, o coniugale, ha ceduto il passo ad inediti orizzonti relazionali, e dover assistere ancora alla messa in scena dell’inferno della singletudine è davvero nauseante.
Consigliamo a Mike Leigh di aggiornarsi un po’, sempre che non sia troppo occupato con i barbecue nel giardino stra-curato del suo cottage.
Luca Biscontini