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Anteprima/Libri: Luca Bianchini, “Siamo solo amici”

Da Uiallalla

Vi proponiamo in anteprima il primo capitolo di “Siamo solo amici” (Mondadori), l’ultimo romanzo di Luca Bianchini che lo scrittore (autore anche di “Instant love”) definisce come “un crocevia di gente diversa che cerca di affrontare il mondo su una zattera”. Il libro sarà presentato lunedì 7 novembre al Chiaja Hotel.

la copertina del libroNella scala dei piccoli dolori, il trasloco viene al secondo posto in assoluto.
Prima c’è il sospetto di un tradimento. A seguire, tutto il resto. La signora Silvana ne era profondamente convinta, anche se non era mai stata tradita e aveva cambiato casa solo una volta. Ma ricordava ancora con orrore quando il suo comò era malauguratamente finito nel canale, e tutti i turisti a fotografare la scena mentre lei gridava “E’ del millesettecentocinquanta”.

Vedere Giacomo alle prese con gli scatoloni le fece riaprire quell’antica ferita, ma lui era troppo concentrato per notare qualcuno alle sue spalle.
- Ti avranno mica licenziato?
- Silvana! Cosa ci fai qui a quest’ora?
- Go d’andar dal dottore a farme dar na ricetta… E mi chiedevo se avevi tempo per un prosecco.
- Di prima mattina? Alla tua età?
- Guarda che il prosecco aiuta ad abbassare il colesterolo.
- Certo. Uno al giorno, però. Ora è troppo presto e poi devo sbrigarmi, perché stanno arrivando dei clienti.
- Go capìo, ti me mandi fora da le bale.

Lui sbuffò in silenzio, le appoggiò una mano sulla spalla e l’accompagnò alle scale senza fretta. Aveva le accortezze che si usano di solito con le vecchie zie, o con i capi, quando rallenti il passo, nascondi i malumori, cerchi di essere paziente e ti fai venire la gastrite. La rassicurò che non si sarebbe trasferito a Mestre, che per lei sarebbe stato inaccettabile: non si può lasciare Venezia solo per affittare casa ai turisti, guidare le macchine e vedere le fabbriche, brontolava. E lui a darle ragione annuendo vistosamente col capo. Sarebbe passato dalla hall al primo piano.

Declinò con fermezza l’ultimo invito per un “prosecchino” – ma ci mettiamo dieci minuti – e riprese a svuotare i cassetti della sua stanza d’albergo. Una stanza che era diventata la sua casa degli ultimi anni e che adesso stava per trasformarsi in un luogo asettico, fatto solo di scatoloni, pennarelli, carta adesiva e da imballaggio.

Durante un trasloco, le case si assomigliano tutte.
Giacomo aveva un modo tutto suo di mettere via le cose, anche quando partiva per un viaggio: cominciava sempre dalle scarpe. Forse perché era la prima cosa che osservava negli altri, anche se si sentiva in colpa a valutare le persone dai piedi. Cosa me ne importa se la tua scarpa è un mocassino, una ballerina o uno stivaletto texano?, si diceva. Ma era più forte di lui. Le sue erano tutte simili, con l’impuntura impeccabile, il lucido stucchevole. Le stesse Church’s da decenni. Lo facevano sentire più sicuro e in sintonia con l’ambiente in cui lavorava.
Dopo le scarpe, sistemò calze e slip – rigorosamente bianchi – annusandoli per precauzione. Poi ripose i gessati, le numerose cravatte, i libri, i dischi in vinile che custodiva gelosamente, ma che non ascoltava più. Poi incartò molti oggetti inutili, che in quel momento perdevano consistenza per diventare racconti delle persone che li avevano posseduti, o regalati, o semplicemente sfiorati, e lui lì, imbambolato, con la tentazione di eliminarli eppure li metteva via.
Poi sistemò una scatola di cui non si sarebbe mai sbarazzato, perché lì c’erano i documenti più importanti che gli anni avevano salvato: biglietti d’auguri e d’aereo, inviti personali, ricevute postali, un paio di scontrini di elettrodomestici e, soprattutto, il codice bancomat.

Il codice bancomat gli aveva sempre dato molta ansia, quasi quanto quella del PIN del telefonino. Un’ansia ingiustificata, visto che girava ogni giorno con una scorta di contanti e i numeri del codice gli ricordavano una notte di Capodanno. Però era terrorizzato all’idea di dimenticare quelle cifre. Una volta al supermercato gli era venuto il più classico dei vuoti di memoria. Tutta la fila lo aveva guardato in silenzio, come un ladro da mezza tacca, e lui era riuscito ad azzeccare la combinazione solo al terzo tentativo, davanti agli occhi perplessi della cassiera: n’altra volta ti te lo scrivi su na man… che xe mejo, gli aveva detto.

Ci sono timori, anche piccoli, che a quarantotto anni ingigantiscono le tue debolezze come se fossi un bambino. Giacomo aveva il terrore di dimenticare il codice bancomat e dover chiedere soldi in giro. Era troppo paranoico per trascriverlo su un foglietto (e se mi rubano il portafoglio?) o sul telefonino (e se mi rubano il telefonino?). Poteva fare affidamento solo sulla memoria e, periodicamente, sul ripasso. Così aveva tirato di nuovo fuori la scatola di latta per rivederlo. Eccolo lì, quel foglietto trasparente: 31999. Lo ripose subito, e riaprì il portafoglio per verificare i contanti. Poco più di duecento euro. La banconota più grande sembrava strizzargli l’occhio, e gli provocò un’eccitazione che, fino ad allora, aveva cercato di rimuovere: era mercoledì. Il lunedì dei parrucchieri, il sabato dei bancari, il giovedì degli gnocchi, nulla valevano al cospetto del suo mercoledì.

Stava per rimettere via la scatola quando palpò l’ammasso disordinato di carte. Vista la roba ancora da spostare, non era il momento migliore per leggere il passato, ma non c’è mai un momento per leggere il passato. Quando capita, la testa sospende i giudizi, sospira, e ricorda.
Una cartolina da New York mandata dal signor Nazzaro; un invito alla prima della Bohème diretta da Zubin Mehta; biglietti da visita di persone che non avevano più un volto; una polaroid di una ragazza senza nome davanti alla Tour Eiffel; un disegno a china che rappresentava il San Carlone; lo scontrino pinzato di uno stereo portatile.

Per un attimo, Giacomo vide sfilare davanti a sé persone e cose, senza riuscire ad afferrarle, come se i ricordi fossero acqua corrente che ti accarezza le mani ma non lascia tracce, lasciandoti impotente davanti al tempo che ti mette al muro chiedendoti: sarebbe questa la tua vita?
Anche se al tempo, perché si ricordi di te, interessano soltanto l’amore, l’arte, i figli, e la morte. Gliel’aveva detto una volta la signora Silvana, e non se l’era più dimenticato. Lui non aveva un amore da condividere né dei figli da proteggere, non sapeva dipingere né voleva morire. Era solo al mondo. Aveva un lavoro, un rimpianto e una speranza. A volte si concedeva un po’ di sesso.

Dall’ammasso di fogli spuntò un plico di lettere legato da un nastro. Le scorse lentamente, attratto dalle calligrafie, fino a fermarsi su una che lesse al ralenti, muovendo le labbra come se fosse straniero.

Caro Giacomo,
volevo ringraziarla per quanto ha reso unico e indimenticabile il nostro soggiorno a Venezia. Io e mio marito abbiamo amato l’atmosfera cordiale che si respira qui, la sua eleganza, quell’odore di cera che si sente prima di entrare in camera.
Mi sarebbe piaciuto conversare ancora con lei, come abbiamo fatto ieri pomeriggio, quando mi ha accompagnato da Nico alle Zattere perché avevo voglia di un gelato. Ecco, quel gianduiotto da passeggio annegato nella panna sarà il ricordo più dolce che mi porterò dalla laguna. Soprattutto la sua faccia imbarazzata nel vedere una madamina come me che si sbrodola come un’adolescente. Ma io ieri mi sono sentita di nuovo ragazza, e lei sa a cosa mi riferisco. Paura e pudore non mi permettono di scriverle di più, ma credo possa immaginare.
Non vorrei però tediarla con questi sentimentalismi, sono una donna dalla lacrima facile, ma sa com’è, noi torinesi non siamo così abituati a esprimere le nostre emozioni (a stento ho trovato il coraggio di scriverle queste poche righe).
Se le capiterà di venire a Torino, la prego di farmelo sapere. Sarebbe un piacere per me ricambiare questa fantastica passeggiata, e non solo.
Io, comunque, non la dimenticherò.
Elena

Giacomo ripose la lettera senza battere ciglio.
Intorno a sé, le scatole ancora da sistemare. Dentro la sua testa, la voce di Elena. Per un attimo, ma solo un attimo, dimenticò che era mercoledì.

 


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