Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Enzo Pennetta, biologo e insegnante di scienze naturali, laureatosi nel 1984 in Scienze biologiche presso l’Università “La Sapienza” e nel 1989 in Farmacia sempre presso la stessa università. E’ autore del libro “Inchiesta sul darwinismo: come si costruisce una teoria” (Cantagalli 2011), ricostruzione storica del progressivo inserimento della teoria di Darwin all’interno del dibattito scientifico e della realtà sociale, dando origine al complesso fenomeno del “darwinismo”.
di Enzo Pennetta*
*biologo (www.enzopennetta.it)
Quante volte abbiamo sentito dire che l’evoluzione dei batteri è dimostrata dalla loro capacità di sviluppare la resistenza agli antibiotici? Effettivamente si tratta di un “mito” che, nonostante le smentite, ha attraversato inalterato i decenni, così come i grafici con l’evoluzione del cavallo e i disegni taroccati di Haeckel con la falsa somiglianza tra gli embrioni.
Come già anticipato, l’idea che i batteri potessero “evolvere” acquisendo un nuovo carattere per la resistenza agli antibiotici, venne già smentita negli anni ’50, quando i genetisti americani Joshua ed Esther Lederberg, fecero degli esperimenti utilizzando la tecnica del replica plating, consistente nel preparare due colonie batteriche identiche e sottoporne solo una all’azione degli antibiotici. La colonia mostrò che alcuni batteri avevano sviluppato la resistenza all’antibiotico e che tutte le generazioni successive la mantennero dimostrando che si trattava di una caratteristica genetica. Andando però a confrontare la posizione delle popolazioni resistenti con la piastra messa da parte (identica a quella utilizzata) scoprirono che i batteri resistenti agli antibiotici erano già presenti anche in quella, e nelle stesse posizioni in cui erano “comparsi” i batteri “evoluti” in quella utilizzata per l’esperimento. La conclusione dello studio di Joshua ed Esther Lederberg fu che la capacità di resistere agli antibiotici non è una nuova caratteristica, e che quindi non dimostra che si sia in presenza di un caso di evoluzione.
Ma, sempre in tema di resistenza agli antibiotici, è di questi ultimi tempi la notizia che il microbiologo Martin J. Blaser, della New York University, analizzando dei batteri ritrovati nel permafrost dello Yukon, e risalenti a 30.000 anni fa, ha scoperto che essi contengono i geni per la resistenza a numerosi antibiotici. Ne dà notizia il New York Times del 31 agosto 2011 in un articolo intitolato: “Researchers Find Antibiotic Resistance in Ancient DNA“. Va inoltre tenuto conto del fatto che i batteri possono trasmettere facilmente la capacità di sopravvivere agli antibiotici, infatti possono scambiarsi il gene per la resistenza come “si condividono le figurine”: «I batteri condividono questi geni l’uno con l’altro come le figurine di baseball», ha commentato infatti al riguardo il microbiologo Stuart Levy della Tufts University.
In definitiva si potrebbe dire che si tratta di una specie di esperimento di replica plating condotto su scala planetaria, e in più con una coltura “messa da parte” 30.000 anni fa. Ma se la resistenza agli antibiotici era presente circa 30.000 anni prima del loro utilizzo in terapia, come sarebbe possibile dire che i ceppi oggi resistenti siano un esempio di evoluzione della specie provocato dai farmaci? Questo dovrebbe implicare che la resistenza sviluppata dai batteri verso gli antibiotici non potrà più essere proposta come una dimostrazione dell’evoluzione secondo i meccanismi neo-darwiniani.
In teoria sì, ma si accettano scommesse sul contrario.