Qui una recensione al mio “10 modi per imparare a essere poveri ma felici” pubblicata oggi su Il Manifesto.
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L’intento del libro di Andrea Pomella 10 modi per imparare a essere poveri ma felici (Laurana) è parodico. Si potrebbe chiudere qui la recensione e lasciare al lettore il compito di scoprire se l’intuizione in questione sia o meno plausibile. Basta fare un giro nelle librerie per vedere negli scaffali decine e decine di saggi sul “come vivere bene”. Solitamente i titoli sono ammiccanti verso il lettore, gli promettono felicità, ricchezza, benessere; gli spiegano il modo migliore per ottenere successo, non farsi soverchiare dal proprio capo; alcuni poi proprio sono dei veri e proprio esercizi di coaching (termine orribile che volutamente non si traduce) per affrontare la vita e essere meglio di altri.
Il testo di Pomella rispetto a queste tendenze rappresenta l’esatto rovescio. Non un libro sulla ricchezza e i modi per ottenerla, ma sulla povertà e come essa non sia poi il peggiore dei mali. Infatti la parola “povertà” così come “felicità, entrambe emblematicamente nel titolo, portano con sé una serie di pregiudizi negativi. Il buon senso, quello borghese e mediocre, ci dice che sarebbe meglio essere ricchi, facoltosi. E la televisione e tutto l’immaginario imperante dei media ci certifica la bontà di questo pensiero.
S’associa al termine povertà l’uomo che rovista nei cassonetti, il povero bambino africano con la goccia al naso e la mosca d’ordinanza appoggiata al viso. Si allignano alla nostra mente immagini di sporcizia, di fetori, di puzza in una discesa che ci porta all’inferno del vivere.
La scelta di Pomella è invece quella di scrostare la parola e riportarla alla sua originale carica eversiva, si pensi a come ancora oggi suoni stonata la prima beatitudine, secondo Luca: “beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli”. E per fare questo mette in scena un’immaginazione, che apre il libro. Pomella scrive: “Se una mattina mi risvegliassi povero, per prima cosa mi siederei al tavolo […] per cercare di capire cosa ho perduto, di così fondamentale, da avere questa nuova e assoluta certezza di essere povero”.
Questo attacco chiede al lettore di figurarsi come non vorrebbe mai essere: il libro, con un tono piano e colloquiale, instilla nel lettore il fastidio del “è accaduto a altri e potrebbe succedere a te”.
Il discorso prosegue: il nuovo povero, o il di-nuovo povero, prende atto della sua condizione, si domanda cosa farà, come farà a vivere in questo mondo che cospira affinché i poveri non esistano. La sua iniziale disperazione si fa via via meno cupa, meno opprimente quando capisce che non ha perduto nulla, perché “la prima colossale bugia” è che “la società in cui ho vissuto mi ha fatto credere che una felicità a interessi zero […] fosse alla mia portata” e che quindi è necessario “imparare a essere povero”.
Cioè la povertà non è tanto una condizione di privazione dei beni, quella potremmo definirla con più esattezza miseria, ma è una “impresa culturale”: imparare a rinunciare al superfluo, rendersi conto che la maggior parte delle cose che desideriamo sono sostanzialmente inutili per vivere. In una parola, e per usare la bella e potente frase di Simone Weil che Rovelli cita nella sua introduzione, Pomella getta “discredito sul denaro” sulla sua stupidità, sulla stupidità della società attuale in cui “se non desideri fare soldi” non sei nessuno, dove anche i rapporti di lavoro non sono più legati al fare e alla produzione, ma alla vendita; dove la giusta paga è stata sostituita dalla provvigione, dove alla competenza si sostituisce la “meritocrazia”.
Il percorso che tratteggia Pomella non è facile né piano, ma irto e labirintico, ma forse la felicità non sta tanto nella meta raggiunta quanto nel cammino, come ricorda Machado: “caminante, no hay camino/ se hace camino al andar”.
DEMETRIO PAOLIN