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"Antigone" di Valeria Parrella

Creato il 03 maggio 2013 da Sulromanzo

Secondo Hegel l’Antigone di Sofocle è “l’opera d’arte più perfetta che lo spirito umano abbia mai prodotto”. Antigone da sempre è l’eroina romantica per eccellenza, simbolo della dicotomia tra famiglia e Stato, pronta a sfidare le leggi della città e a sacrificare la sua vita stessa in nome delle leggi non scritte degli dei (àgrapta nòmima): “Io non sono nata per odiare, ma per amare”. Ogni epoca si nutre della sua Antigone: alla corte del Re Sole con Racine, tra i furori giacobini con Alfieri; nel mondo contemporaneo delle dittature con Anouilh e Brecht; rivive anche nell’isola caraibica di Haiti per mano del drammaturgo Felix Morisseau-Leroy, che negli anni ’50 scrisse di lei in creolo. Antigone di Valeria Parrella è un atto unico, (Einaudi, pagg. 105) rappresentato per la prima volta al Teatro Mercadante di Napoli il 25 settembre 2012 per la regia di Luca De Fusco, in questi giorni al Teatro Stabile di Catania e che a novembre debutterà a Parigi, al Théâtre National De Chaillot.

Della tragedia greca la Parrella riprende con precisione la struttura: prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo. Ma attualissimo è l’animus. Nel dramma sofocleo Antigone viola l’editto di Creonte, re di Tebe, che vieta la sepoltura del fratello Polinice e paga con la sua vita quella trasgressione; nella riscrittura della Parella, l’eroina decide di staccare l'alimentazione artificiale che da tredici anni tiene in vita, come un vegetale, suo fratello Polinice: «La vita è un soffio che esce, signore, non uno che entra» dichiara con fierezza. Così, l’eutanasia, l’accanimento terapeutico e il libero arbitrio entrano prepotentemente tra i versi della tradizione con tutta la loro rilevanza etica universale: è consentito ad un cittadino, sulla base della ragione morale, disobbedire ad una legge dello Stato?

«Quando al Legislatore manca la ragione, è il popolo che deve tornare a ragionare» afferma Antigone, ma Creonte, il re di Tebe è Il legislatore: «sono il Legislatore, io vivo qui dentro e da qui dentro tutto so e tutto vedo» e senza esitare punisce la colpevole gettandola in carcere: «Sto zitta, sto zitta, ma qui dentro si soffoca, che gabbia è mai questa in cui vengo gettata? Cosa ha a che vedere con l’uomo e la sua genia questa carcerazione?». Nell’esodo il corifeo comunica che si è uccisa respirando il gas del fornellino, mentre le compagne erano all’ora d’aria. Una donna fiera e coraggiosa, che non è nata per abituarsi e per piegarsi: «io sono nata Antigone: porto la radice del contrasto nel nome nome» – lontana anni luce dalla sorella Ismene, troppo debole per opporsi al potere e che affida i suoi ultimi pensieri ad una lettera per il suo amato Emone, figlio del Legislatore: «serve cercare a lungo e con grande disposizione d’animo, cercare nella notte fonda e immobile quell’unica persona che, fremito alle palpebre, inizi ora a sognare: è solo da un sogno nuovo che può principiare il futuro».

Una prosa stringata, ridotta all’essenziale ma altamente poetica, come nel celeberrimo primo stasimo sulla condizione dell’uomo: «molte potenze sono tremende ma nessuna lo è più dell’uomo che rigetta la sua natura e fa fango della terra fertile e del mare cristallino, e costringe il pensiero che gli è naturale in vincoli umilianti».

Una riflessione profonda sulla vita, sul coraggio, sul modo di amare, oggi e in tutti i tempi, come scrisse George Steiner (Le Antigoni, 1984): «L’Antigone di Sofocle non è un 'testo qualunque'. È una delle azioni durature e canoniche nella storia della nostra coscienza filosofica, letteraria e politica. Al centro di questo libro si trova l'abbozzo di un tentativo di rispondere a una domanda: perché una manciata di miti greci antichi continua a dare la sua forma vitale alla nostra percezione di noi stessi e del mondo? Perché le 'Antigoni' sono davvero 'éternelles' e direttamente rilevanti al momento presente?».

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