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Saetta Antonino. Magistrato canicattinese ucciso dalla mafia il 25 settembre del 1988. Uomo equilibrato ed integerrimo pagò con la vita il rifiuto a piegarsi alle pressioni criminali che volevano ribaltare in appello un verdetto contro la mafia di Palermo. E' stato assassinato insieme al figlio Stefano. La sua morte è stata però dimenticata, ed ogni anniversario diventa occasione per cogliere con mano l'indifferenza che ha ricoperto questa tragica fine di un servitore dello Stato. Ecco una breve biografia di Antonino Saetta, scritta dal figlio Roberto.
Mi si è chiesto di fornire alcune brevi notizie sulla vita, e sull'uccisione del magistrato Antonino Saetta, e del figlio Stefano, morto con lui.
E' un compito che, seppure mi riporti alla mente fatti dolorosi, svolgo volentieri, nella convinzione che sia opportuno cercare di tener vivo il ricordo di certi eventi e di certi uomini che sono caduti per difendere interessi e valori della società civile tutta. .
A maggior ragione l'informazione appare opportuna con riferimento ad una vittima di mafia, quale Antonino Saetta, che è certamente meno conosciuta e meno rievocata di altre consimili, pur essendo non meno rilevante e significativa. Antonino Saetta nacque a Canicattì il 25.10.22, terzo di cinque figli, da Stefano, maestro elementare, e da Maddalena Lo Brutto, casalinga. Conseguita la maturità classica presso il liceo ginnasio statale di Caltanissetta, si iscrisse nel 1940 alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Palermo.
Chiamato nel frattempo alle armi, partecipò al corso per allievi ufficiali di complemento dell'esercito, che fu però interrotto per la sopraggiunta cessazione delle ostilità. Dopo aver conseguita la laurea in Giurisprudenza nel 1944, col massimo dei voti e la lode, vinse il concorso per Uditore Giudiziario. Entrò in Magistratura nel 1948, all'età di ventisei anni.
La sua prima sede di servizio fu Acqui Tenne (Al), in Piemonte. Nel 1952, sposò Luigia Pantano, farmacista, anch'essa di Canicattì. Ad Acqui Tenne nacquero i figli Stefano e Gabriella.
Si trasferì poi, nel 1955, a Caltanissetta, ove, alcuni anni dopo, nacque il terzo figlio, Roberto (chi scrive). Fu quindi a Palermo, nel 1960, ed ivi svolse poi la maggior parte della carriera, occupandosi prevalentemente di processi civili, salvo talune parentesi. Nel periodo 1969-71 fu Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca. Negli anni 1976-78, fu Consigliere presso la Corte d'Assise d'Appello di Genova, ove si occupò anche di taluni processi penali di risonanza nazionale (Brigate Rosse; naufragio doloso Seagull). Nel periodo 1985-86, ricoprì le funzioni di Presidente della Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta. E qui si occupò, per la prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ed i cui imputati erano, tra gli altri, i "Greco" di Ciaculli, vertici indiscussi della mafia di allora, e pur tuttavia incensurati. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di primo grado.
Antonino Saetta tornò poi definitivamente a Palermo, quale Presidente della prima sezione della Corte d'Assise d'Appello.
E qui si occupò di altri importanti processi di mafia, ed in particolare presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Emanuele Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia. Il processo, che in primo grado si era concluso con una sorprendente, e molto discussa, assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati.
Pochi mesi dopo la conclusione del processo, e pochi giorni dopo il deposito della motivazione della sentenza, il Presidente Antonino Saetta fu assassinato, insieme con il figlio Stefano, il 25 Settembre 1988, sulla strada Agrigento - Caltanissetta, di ritorno a Palermo, dopo avere assistito, a Canicattì, al battesimo di un nipotino. L'inchiesta, pur essendo sin da subito chiara agli inquirenti la matrice mafiosa dell'omicidio, era stata, in un primo tempo, archiviata a carico di ignoti. In quegli anni, non era ancora stata introdotta la legislazione sul pentitismo; e la quasi totalità degli omicidi di mafia, anche di alte personalità dello Stato, rimanevano prive di colpevoli e persino di imputati. Sette anni dopo, nel 1995, grazie a nuovi elementi investigativi nel frattempo forniti da alcuni collaboranti, e grazie anche al caparbio impegno e alla capacità di due giovani pubblici ministeri presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta, che voglio ricordare, il dr. Antonino Di Matteo, ed il dr. Gilberto Ganassi, si potè riaprire l'inchiesta.
I responsabili della duplice uccisione vennero individuati in Totò Riina, Francesco Madonia, e Pietro Ribisi. I primi due, capi indiscussi della mafia palermitana, e della cosiddetta cupola, come mandanti; il terzo, Ribisi, esponente di una sanguinaria famiglia mafiosa di Palma Montechiaro, quale esecutore, insieme con altri criminali, nel frattempo uccisi. I tre imputati sono stati processati e condannati all'ergastolo, dalla Corte d'Assise di Caltanissetta. Il verdetto, confermato anche nei successivi gradi di giudizio, è ormai passato in giudicato. Antonino Saetta rappresentava un obiettivo di primaria importanza per la mafia, un obiettivo da eliminare necessariamente. Per raggiungere il quale, ebbero a convergere le forze di due articolazioni territoriali della mafia: quella palermitana, e quella agrigentina. I processi di mafia presieduti da Antonino Saetta avevano riguardato prevalentemente se non esclusivamente la mafia di Palermo, che risulta mandante dell'assassinio.
L'esecuzione materiale dello stesso viene però affidata alla mafia dell'agrigentino, con la consegna di occuparsene in quel territorio. Ciò, in parte, è stato determinato da ragioni di maggior sicurezza operativa: nessun rischio presentava infatti un agguato a quel magistrato, nel momento in cui, in compagnia soltanto del figlio, ritornava a Palermo, da Canicattì, in tarda serata, su una normale vettura, e senza scorta, in un tratto di strada poco trafficata e circondata dalla campagna. Si conseguiva, inoltre, il vantaggio ulteriore di confondere le acque agli inquirenti.
Ma il motivo principale di quella scelta era un altro: risulta, dagli atti processuali, che la mafia dell'agrigentino, il cui capo indiscusso era, allora, il canicattinese Peppe Di Caro, poi ucciso, abbia volentieri accettato di occuparsi dell'esecuzione materiale di quell'assassinio, per acquisire maggior prestigio all'interno dell'organizzazione e, soprattutto, per stringere più forti rapporti di alleanza con le cosche dominanti del palermitano.
La collaborazione tra la mafia palermitana e quella agrigentina serviva anche a dare un segnale di compattezza, e di risolutezza, tanto più necessario per il significato dirompente di quell'evento: per la prima volta si uccideva un magistrato "giudicante", un organo che, per definizione, non è antagonista rispetto al reo, come lo è invece un magistrato inquirente, ma si colloca in una posizione super partes, di terzietà e di garanzia, tra l'accusa e la difesa, e pronunzia il suo verdetto, in nome del Popolo Italiano, sulla base degli elementi processuali forniti dall'una e dall'altra.
Con l'uccisione di Antonino Saetta si compiva un tragico salto di qualità: chiunque amministrava giustizia, ledendo interessi mafiosi adesso avrebbe potuto sentirsi in pericolo di vita.
L'effetto intimidatorio che ne scaturì negli anni successivi - effetto assolutamente voluto - fu esteso e ben evidente, come espressamente è stato scritto nella relazione finale della commissione parlamentare antimafia, presieduta dal sen. Violante, e si concretizzò in una lunga sequela di ingiustificabili assoluzioni. La gravita di quell'omicidio fu per la verità, sin dall'inizio, chiara agli operatori giuridici e alle autorità istituzionali: ai funerali di Antonino e Stefano Saetta, a Canicattì, volle partecipare, accanto al Capo dello Stato, a Ministri, a Segretari di partito, anche l'intero Consiglio Superiore della Magistratura, fatto questo che mai si era verifìcato prima, in casi analoghi, né mai si verifìcò dopo, neppure dopo le stragi del 1992.
Ma perché la mafia decise di uccidere un magistrato così poco noto alle cronache come Antonino Saetta?
Innanzitutto, per quello che egli aveva già fatto. Negli ultimi anni di vita, come s'è detto, si era occupato, quale Presidente di sezione di Corte d'Assise d'Appello, di due fondamentali processi di mafia: quello relativo all'uccisione del giudice Rocco Chinnici, contro i Greco di Ciaculli, e il processo relativo all'omicidio del capitano dei carabinieri Basile, contro i boss emergenti Puccio, Bonanno e Madonia. Entrambi questi processi, condotti con mano ferma, si conclusero con la condanna all'ergastolo degli imputati, e, particolare che va ricordato, con l'aumento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di 1° grado; invertendo così una comune ma ingiustificata prassi giudiziaria che ci aveva abituati a vedere le sentenze di appello quasi sempre più miti e indulgenti di quelle di primo grado.
Il processo Basile fu l'ultimo processo presieduto da mio padre: il dispositivo venne letto poche settimane prima della sua uccisione. E' probabile che un movente di ritorsione vi fosse, per il modo rigoroso e inflessibile con il quale il processo fu presieduto, sottraendolo a pesanti condizionamenti criminali.
Ma certamente non vi fu solo ritorsione. Antonino Saetta fu ucciso anche, o soprattutto, per quel che avrebbe potuto fare quale probabile presidente, come correva voce, del maxiprocesso d'appello contro la mafia. La quale non poteva gradire per quell'incarico un giudice che si era dimostrato non influenzabile in alcun modo e non suscettibile di intimidazione. Il movente dell'assassinio è stato quindi triplice: "punire" un magistrato che, per la sua fermezza nel condurre il processo Basile, e, prima, il processo Chinnici, aveva reso vane le forti pressioni mafiose esercitate; "ammansire", con un' uccisione eclatante, gli altri magistrati giudicanti allora impegnati in importanti processi di mafia; "prevenire" la probabile nomina di un magistrato ostico, quale Antonino Saetta, a Presidente del maxiprocesso d'Appello alla mafia.
Antonino Saetta era un magistrato schivo e riservato, per indole e per scelta di vita. Un giudice che, come tanti, ma non come tutti, aveva fatto carriera lontano dai centri di potere, palesi od occulti.
Un giudice che, come il conterraneo Rosario Livatino, evitava la frequentazione dei politici, non per banali pregiudizi nei loro confronti, ma per far sì che non si determinassero indebite interferenze, magari inconscie, sul suo operato. Un giudice che però, dopo la sua tragica fine, è stato spesso dimenticato. Al punto che la sua figura, e persino il suo nome, sono ormai sconosciuti a tanti, soprattutto ai più giovani. All'oblio hanno concorso vari fattori: anzitutto, la sua poca notorietà da vivo, determinata in parte dalle funzioni che svolgeva, che erano funzioni "giudicanti", solitamente poco illuminate dai riflettori delle telecamere.
In secondo luogo, la sua naturale riservatezza, che dovrebbe essere tuttavia una virtù o un dovere per ogni magistrato. Probabilmente ha contribuito anche il luogo scelto per l'omicidio, un luogo lontano da Palermo, città ove era la sua residenza e ove svolgeva la sua attività. Ancora più sconosciuta è la figura del figlio Stefano, morto con lui, all'età di 35 anni. Talmente sconosciuta che, in quel mediocre film intitolato "II Giudice Ragazzino", film che non è piaciuto neanche ai genitori di Rosario Livatino, Stefano viene incomprensibilmente rappresentato come un disabile allo stato vegetativo sulla sedia a rotelle, quando invece era un giovane fisicamente sano, e addirittura sportivo: era un ottimo nuotatore, faceva spesso lunghe camminate, e talvolta giocava pure a calcio.
Aveva avuto dei disturbi psichici, dai quali però era sostanzialmente guarito già diversi anni prima della morte.
La conoscenza della vicenda di Antonino e Stefano Saetta è indispensabile per chiunque voglia realmente comprendere cosa sia stata la lotta alla mafia negli ultimi venti anni, e quale sia stato il livello dello scontro. Ritengo che, prima o poi, a differenza di quel che sinora è avvenuto, gli operatori culturali, gli studiosi, il mondo accademico, si soffermeranno più ampiamente su questa vicenda, che ha caratteristiche di gravità unica: unica perché, per la prima e sinora unica volta, è stato ucciso un magistrato giudicante; e unica perché, per la prima e unica volta, insieme con il magistrato da uccidere, è stato ucciso anche suo figlio.
www.solfano.it/canicatti/antoninosaetta.html
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