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Antonio PIBIRI “Il mondo che rimane”

Creato il 06 marzo 2011 da Fabry2010

Antonio PIBIRI “Il mondo che rimane”

Sul raccordo

Il sesso è una continua interruzione
Cesare Viviani

non svegliar l’uomo che vola
nel vento che non fa una piaga.
solo osservalo in sezione.

ché la pista d’atterraggio s’intravvede.
di già scende, perde quota.

o si riprende sul tuo corpo
aperto tra lenzuola
il suo miraggio.

*

Tabellina dell’io

domino e regno perché plurioculare
ricalco i confini bagnati dell’isola.

dal centro alto m’irraggio
come stella a torcicollo.

regno e domino dalla rocca
ferita al fianco da un solo loculo.

tengo la conta demografica:
secondo soltanto allo zero.

il mio è Stato sovrano,
mio indivisibile numero.

*

La casa dei fantasmi

In casa tra lenzuoli appesi ai crucci
tutto ciò che uccido prima o poi
torna a rivivere mio malgrado.
così vuole, così
voglio?
scopro di non avere potere di morte,
pollice verso, che non confligga
col suo contrario.
né altro altro potere
se non l’oblio della piaga,
l’oblio del nemico che amichevolmente
mi rende la spada.

*

non posso ascoltarti

da questa ribalta di luce,
facce da una secrezione,
e villose dune come bestie
esauste.
per un attimo vivrei nell’imminenza
dell’acqua che scorre via,
neve di commozione.

una musica si stacca da terra.
il trenino prende a salire
per la curva dei monti
su e giù, fa scalo dove poggia
la matita del bimbo.

*

la formica è un centauro
nel suo mondo di draghi
Ezra Pound

mi parli al telefono con la spina
di pesce in gola, o l’affilato osso di pollo.
mi dici che la sabbia si solleva
e prende forme che poi non mantiene.
cade a tappeto e tu la segui
confondendoti nella minuta grana.
in quel franare cerchi
il tuo minuscolo gemello.

*

Romanzo

sei ai piedi di una centrale eolica
gli occhi scalano le torri fino alle pale
e nel campo vicino un bracciante
sistema con cura uva sulle stuoie.
io ti capisco sai, così distante
pensi al tuo cavallo, il drago,
la damigella.

*

Il mondo che rimane

la vista un ristretto di alterni focolai,
calcestruzzi senza sciacquiettio.
un uovo sodo vuoto tant’è pieno
e senza becco
   che muova.

fuori allo scoperto la giravolta dei fiori,
bella grafia delle primissime volontà.
la strada per terra riapre
al mondo che muore.

*

Lasciti (proprietà dell’autore)

credo nella resurrezione dei corpi.

troppi ne ho visti uscire da inferni
privati o collettivi, alcuni più cattivi,
deformi lamiere, forse orchi.

altri rinati, ma pochi come dita.
tutt’al più lasciano ai posteri
qualche oscuro canto
a sinistra in colonna.

*

Antonio PIBIRI
Il mondo che rimane
Lampi di stampa (Milano, 2010)

*

Antonio Pibiri è nato a Sassari e risiede ad Alghero. Il mondo che rimane è il suo secondo libro di poesia dopo Di quinta in Quinta (Magnum editore – Sassari, 2007)

*

Postfazione di Antonio Fiori


Una poesia, quella di Antonio Pibiri, con tratti sicuramente orfici, eppure capace di versi lucidissimi, una scrittura di rivisitazione del sogno, che attinge spesso dal magma dell’inconscio ma che mai rinuncia al raziocinio, a un tentativo estremo di decodificazione, al giudizio del “tribunale della mia scrivania”. Il poeta si assicura un contatto con l’esterno attraverso gli eserghi, le dediche, le allusioni letterarie ma poi affronta il suo viaggio singolare e visionario. Né può dirsi che lo sguardo sia solo interiore: natura e manufatti, incontri e sentimenti, sono spesso al centro dell’attenzione, risolti però in una sorta di trasfigurazione, anche attraverso il meccanismo del capovolgimento e dell’ironia (“qualcuno cambia i fiori all’acqua”, “madonne che piangono dal ridere”). Nella prima sezione della raccolta l’autore si confronta con le dinamiche più profonde e sfuggenti della comunicazione interpersonale, registra “l’enigma dell’altro”, l’impossibilità di comprendersi interamente (“oh se un Angelo mi fermasse in tempo/per offrirmi ragguagli, per dirmi”). Di questo la poesia è testimone, ma anche costante e inappagabile investigatrice. Attraverso l’alter ego e l’immaginazione cerca poi nuovi indizi, altre risposte. La seconda, “Il mondo che rimane”, sfuma nel rapporto confuso e problematico con la realtà esterna, gli oggetti e la natura. Il poeta insomma muove dall’enigma dell’altro verso l’enigma del mondo: “la strada per terra riapre al mondo che rimane”. Anche se la parola non è la cosa – e anziché avvicinarci alla verità spesso ce ne allontana – essa è strumento irrinunciabile e la chiaroveggenza resta, per Pibiri, una legittima aspirazione: “serve un’altra ugola, un’altra voce”.
I testi sono attraversati da plurime tensioni: il contenimento dei significati apparenti (ottenuto con l’accostamento di aggettivi improbabili), la necessità che la musica d’una rima non snaturi la vocazione antilirica dei testi, il pericolo del nonsense, in questi casi, in questi casi sempre in agguato. Al tendersi di queste corde la poesia si anima, trova la su fisionomia – o magari la via d’uscita dall’impasse provocato dal suo stesso oggetto (“giuro che ogni ponte mi è d’ostacolo/…/forse meglio senza, procedere nei vuoti/coi piedi che formicolano indizi”). Ma Pibiri sa bene che non riuscirà a sciogliere il nodo, che la poesia è e rimarrà sempre solo ricerca, anelito, preghiera.



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