Tra le mani ho il secondo volume dei Meridiani che raccoglie le Opere di Goffredo Parise. Mi sono soffermato su un romanzo in particolare, L’eleganza è frigida, che racconta le vicende di Marco immerso nella metropoli di Tokio, in quello che da subito appare un accurato reportage.
Per il momento mi sono concentrato su una mezza pagina illuminante, con la quale inizia il capitolo XIX, citata nell’esauriente introduzione di Elena Dal Pra al volume Haiku, Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento.
Incontriamo Marco, alter ego dell’autore, appoggiato al parapetto di lacca scarlatta che guarda un piccolo stagno quasi interamente coperto di ninfee. Improvvisamente scorge una piccolissima rana brillante di smeraldo tuffarsi nell’acqua. Indugia un momento, quindi legge un haiku da un libro che sta sfogliando:
Nel vecchio stagno
una rana si tuffa.
Il rumore dell’acqua.Era tutto, ma per Marco fu uno dei momenti più stralunati e alti della sua vita, momenti che solo il Giappone creava.
Cominciare a parlare di haiku attraverso un romanzo può sembrare un controsenso. In primo luogo non lo è quando si parla di Parise, autore, non si dimentichi, dei Sillabari, vera e propria poesia in prosa. In secondo luogo non possiamo fare altrimenti, non essendo nati in Giappone, patria di questa particolare forma di linguaggio poetico. Dato un ipotetico ponte che unisce l’occidente all’oriente, il punto di partenza è, per forza di cose, ciò che ci è più vicino.
Parliamoci chiaro: non me la sento di dire di conoscere la cultura giapponese per il solo fatto di averla assaporata attraverso prodotti importati, adattati, tradotti e a volte forzati dalla forma mentis occidentale. Nel giungere fino a noi qualcosa si perde inevitabilmente.
Ebbene, questa mezza paginetta che ho citato ci aiuta a cogliere alla perfezione l’universo degli haiku, con tutte le implicazioni del caso.
Cos’è esattamente un haiku?
L’haiku è un componimento poetico costituito da tre versi (detti ku), in genere privo di titolo. Esprime qualcosa di cui abbiamo già fatto esperienza, che alberga nel nostro essere e immediatamente ci coinvolge: una stagione, la neve, l’acqua di una risaia, la foschia mattutina, un acquazzone, il freddo, un gatto, il guizzo di una carpa, un campo arato, oppure la luna, un vecchio, un capanno, un berretto, una gallina, il canto del cuculo e, finalmente, uno stagno nel quale si tuffa una rana, facendo rumore. Della serie più che una definizione ammaestrano gli esempi.
L’haiku assomiglia molto a un ritratto dal vero di qualcosa che si trova di fronte a noi, nella sua essenza, senza artifici e ornamenti. Per sua natura non definisce, non crea confini, non costruisce concetti. Indica, ritrae, è un’istantanea fotografica. Con la differenza che di sfuggita appare l’occhio che sta dietro l’obiettivo, colui che ha intinto il pennello e vergato i segni sulla carta. Verrebbe da dire che non sono le immagini a essere estratte dai versi, ma i versi a essere estratti dalle immagini. Oppure tutte due le cose insieme. L’autore (che disegna in punta di pennello ideogrammi sillabici) si confonde con l’argomento e il tono dell’haiku. Esce fuori da se stesso perdendosi (o ritrovandosi) nella consistenza del reale che lo riguarda, riportando a unità sollecitazioni disperse in frammenti. Non so se è chiaro. Quello che più si avvicina a questo ideale sono le poesie di Ungaretti (paradossalmente haiku nella sostanza se non nella forma):
Mi illumino di immenso
Si sta come, d’autunno, sugli alberi le foglie.
Per chiarire ulteriormente il discorso fin qui abbozzato, si può percorrere un’altra strada. Provate a pensare a uno stagno, al rumore dell’acqua, a una rana che si tuffa. Che abbiamo se non frammenti? Presi singolarmente questi tre elementi non esprimono nulla in particolare. Eppure l’haiku ricordato all’inizio, noto come ” la rana di Basho” (Matsuo Basho, 1644-1694), li raccoglie in una inscindibile unità, fonte di illuminazione e meditazione profonde, intesa a corroborare la comunione dell’uomo con la natura circostante. Natura non convenzionale o, peggio, letteraria, ma reale, concreta, toccata con mano, recitata in un unico respiro, abbracciata nel suo insieme.
Goffredo Parise ha già detto tutto: sono momenti che solo il Giappone poteva creare. Nei componimenti haiku è radicata la cultura zen, che porta con sé l’esigenza di un linguaggio immediato, essenziale, direi umile, ma tutt’altro che povero o meschino. Per intenderci non ha molto a che fare con le piccole cose di pessimo gusto della poesia crepuscolare italiana. Piuttosto ha molto in comune con l’illuminazione religiosa nella sua immediatezza e insondabile indivisibilità, con il creato che assume la forma di una sfera che poggia, con tutto il suo peso, su un punto soltanto (una stagione, uno stagno, la neve, l’acqua di una risaia, la foschia mattutina, un acquazzone, il freddo…).
L’haiku è questo: la sua struttura, anche se costruita con mattoni che si possono riconoscere è un che di indissolubile. I tre versi (ku) che lo costituiscono sono irriducibili e tali da regalare un barlume di trascendenza. Basta questo per capire che non si può mettere in versi qualsiasi cosa, né è sufficiente o necessario rispettare la regola formale del numero di sillabe: 5 nel primo verso (Nel-vec-chio sta-gno), 7 nel secondo (u-na ra-na si tuf-fa), 5 nel terzo (il ru-mo-re del-l’ac-qua). La regola formale di per sé non significa nulla, perché legata alla lingua giapponese priva di accenti tonici e di per sé foriera di possibili fraintendimenti. Dietro lo schema 5-7-5 c’è il rischio di scorgere la simmetria, un ordine che con l’haiku (e la cultura giapponese) hanno ben poco a che vedere. Rinvio i più volenterosi al libro di Donald Richie, Sull’estetica giapponese, edizioni Lindau.
Non va sottovalutato il problema del linguaggio, della sintassi, della grammatica di una lingua che non sia quella giapponese, nonché della traduzione. Perché a meno di saper leggere gli ideogrammi, chi volesse addentrarsi nel mondo degli haiku deve avere in mano un testo tradotto. Ebbene ho trovato qua e là due, tre versioni diverse della rana di Basho.
Eccone alcune di seguito. La prima è quella indicata all’inizio, la seconda è tratta da Wikipedia, la terza da un sito internet:
Nel vecchio stagnouna rana si tuffa.
Il rumore dell’acqua.
Vecchio stagnouna rana si tuffa.Rumore dell’acqua.
Il vecchio stagnola rana saltatonfo nell’acqua.
Personalmente preferisco la prima. La seconda sembra essere la traduzione più rigorosa: non ricorre agli articoli (in giapponese non esistono) se non è assolutamente necessario, ma la trovo meno espressiva della precedente, e poi il primo verso ha quattro anziché cinque sillabe, se vogliamo essere pignoli. Tralascio il fatto che il traduttore possa scegliere l’articolo determinativo o indeterminativo solo ed esclusivamente per rispettare il numero di sillabe richiesto dal canone. La terza versione è più fredda, assomiglia a un esercizio scolastico, a un mero elenco. Eppure l’immagine è la stessa, tutti e tre sono haiku.
Sembra occorra una snervante ricerca linguistica ed espressiva per scrivere un haiku in una qualsiasi lingua occidentale. Ricerca che è un controsenso perché tradisce la scrittura semplice, immediata, senza orpelli e artifici propria del genere poetico in esame. Emerge effettivamente un paradosso, il dilemma della quadratura del cerchio.
Siamo quindi, noi occidentali, senza speranza? Non direi.
Osservare in che modo la cultura occidentale si sia cimentata con l’haiku non è privo di interesse. È impressionante rendersi conto di quanti poeti, noti e meno noti, siano incappati in questa forma poetica: Kerouak, Pound, Borges, Claudel. Ma anche Andrea Zanzotto, Antonio Machado, Octavio Paz.
Andrea Zanzotto, poeta nativo di Pieve di Soligo, ha composto haiku nel corso di un periodo non sereno, oppresso da una mordente depressione, tra la primavera e l’estate del 1984. Ne ha ricavato suggestioni non da poco. Li ha composti in inglese, traducendoli in italiano in un secondo momento. Per il poeta scrivere haiku è stato un “lavorio di frammenti esistenziali e linguistici, con detriti di ogni genere…”.
Anche Borges, con lo stile che lo contraddistingue, ha scritto haiku, diciassette dei quali si possono leggere nel volume La cifra, uscito nel 1982 per i tipi della Mondadori. Ecco un esempio:
¿Es un imperio
esa luz que se apaga
o una luciérnaga?
[È un impero
quella luce che muore
o una lucciola?]
Dulcis in fundo due parole vorrei dedicarle a Emily Dickinson. Il poeta statunitense Everett Decker si è immerso nell’esame delle sue poesie, riscontrando una profonda somiglianza con l’arte degli haiku. Ne è uscito un volume pubblicato dalla Small Bacth Books dal titolo haiku Emily! Questo l’estratto di un articolo trovato su internet e citato in calce:
Decker has produced a unique guidebook of sorts: an introduction to 125 of Dickinson’s poems that he has titled “haiku Emily!” He’s written haiku-style interpretations of the poems based on his own interest in haiku and Japanese philosophy and the similarities he sees between haiku and what he calls the “hymnal lyric style” of Dickinson’s work.
[Decker ha prodotto una guida unica nel suo genere: un' introduzione a 125 poesie di Dickinson che ha intitolato "Haiku Emily!" Ha scritto un'interpretazione in chiave haiku delle poesie basandosi sul proprio interesse per gli haiku, la filosofia giapponese e le somiglianze che ha notato tra haiku e ciò che egli chiama lo "stile lirico innario" dell'opera di Dickinson.]
Concludo dicendo che raccogliere Ungaretti e Emily Dickinson nella sfera degli haiku può apparire una forzatura. È anche vero che, nella mia ignoranza per questo genere letterario, ho subito pensato a loro quando ho tentato di chiarirmi le idee. La prima cosa che ho fatto è verificare in internet se in qualche maniera venissero tirati in ballo. Da questa ricerca si è aperto un mondo e una serie di nomi di insospettabili, tra i quali annovero Borges.
Se Borges e Zanzotto hanno scritto veri e propri haiku, lo hanno fatto assecondando la loro vena creativa e sperimentale, trovando una forma congeniale nella quale esprimersi. Sono ricorsi a una forma, o formula che dir si voglia, adatta a riporre dei contenuti che avevano già nel loro scrigno, dentro di sé. Ritrovare lo spirito degli haiku in poeti come Ungaretti e Emily Dickinson sorprende fino a un certo punto: un po’ come Marco che legge l’haiku di Basho subito dopo aver scorto la rana tuffarsi nello stagno. La rana, lo stagno, il rumore dell’acqua sono già nella sua mente, in sé hanno già un potere evocativo. L’haiku è uno di quei casi in cui non è la forma a evocare il contenuto, ma il contenuto a evocare la forma più acconcia. Il segreto dell’haiku è tutto qui. La cosa sarebbe stata assai differente (e meno incisiva perché più ordinaria e scontata) se Marco prima avesse letto l’haiku di Basho e successivamente avesse sorpreso la rana gettarsi nello stagno.
E così l’articolo si chiude, tornando inaspettatamente al punto di partenza, a quella bella mezza pagina di Goffredo Parise con la quale si è cominciato.
Libri citati:
1. Goffredo Parise, L’eleganza è frigida, in Opere – a cura di Bruno Calleghe e Mauro Portello, vol. II, I Meridiani, Mondadori – Milano 1989
2. Haiku, il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento, a cura di Elena dal Pra, Mondadori – Milano 2006
3. Jorge L. Borges, La cifra, Mondadori – Milano 1982
4. Everett Decker, Haiku Emily!, Small Batch Books, 2011
5. Andrea Zanzotto, Haiku for a season/Haiku per una stagione, University Of Chicago Press, 2012
6. Donald Richie, Sull’estetica giapponese, Lindau 2009
Pagine consultate (a parte Wikipedia):
1. https://sites.google.com/site/haikuframmentidivita/haiku-di-giuseppe-ungaretti
2. http://www.zenfirenze.it/approfondimenti/haiku-paolo-pagli-app16.asp
3. http://lettura.corriere.it/haiku-la-cura-di-zanzotto/
4. http://www.masslive.com/news/index.ssf/2012/01/westfield_man_gives_emily_dick.html