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Appunti sulla storia recente dello #Yemen

Creato il 03 aprile 2015 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

I problemi dello Yemen iniziano nel 1990 con l’unificazione tra Nord e Sud, avvenuta sotto la guida del presidente Ali Abdullah Saleh, dittatore già a capo del Nord dal 1978. L’unione crea una stabilità solo apparente, che negli anni successivi sarà messa in forse tanto dalle rivolte interne (quella dell’Hadramawt nel 1994 e quella Houthi che vedremo in seguito), quanto dalla pessima gestione di un governo corrotto che amministrerà il Paese secondo una logica meramente spartitoria. Sono molti infatti i clan da foraggiare per preservare gli equilibri di potere. Questo perché la pietra angolare nella realtà yemenita è il sistema tribale. Le tribù sono la principale formazione sociale del Paese e ne rappresentano la più importante autorità collettiva: in tutto lo Yemen se ne contano circa duecento. Per assicurarsene la fedeltà, Saleh le incardina all’interno delle strutture istituzionali.

La primavera di Sanaa

Questo equilibrio di potere si mantiene fino agli inizi del 2011, quando il vento delle primavere arabe investe anche Sanaa. Nel giro di pochi mesi Saleh è costretto a lasciare il Paese, non tanto per le proteste quanto perché il 3 giugno è vittima di un gravissimo e (non del tutto chiaro) attentato che per poco non gli costa la vita. Dopo alcuni mesi di convalescenza, il presidente torna nello Yemen per non restare fuori dalla feroce lotta d’élite tra il suo clan e quello degli azionisti di minoranza del potere, gli al-Ahmar.

Questi ultimi giocano un ruolo non indifferente nella caduta del regime. A differenza delle rivolte tunisina ed egiziana, le manifestazioni yemenite sono coordinate dal Congresso generale del popolo, il principale partito d’opposizione, tra l’altro sfruttando le infrastrutture della compagnia telefonica Sabafon, in mano alle forze di opposizione. Il direttore dell’azienda è Hamid al-Ahmar, del partito islamista riformista Islah, seconda forza d’opposizione. Di quest’uomo d’affari con le mani in pasta nella politica, in una nota riservata dell’agosto 2009 l’allora ambasciatore americano in Yemen Stephen Seche descriveva l’impressionante livello di “ambizione, ricchezza e potere tribale, una combinazione esplosiva”.

L’avvento di Hadi e il ritorno di Saleh

La fine della primavera araba, almeno della sua fase più acuta, non porta alcun miglioramento nel martoriato Yemen. Prima di lasciare il Paese, Saleh delega le proprie funzioni al vicepresidente, Abed Rabbo Mansour Hadi, il quale coglie tutti di sorpresa con una serie di decreti grazie ai quali riesce a sbarazzarsi in un colpo solo dei fedelissimi e dei parenti del suo (futuro ex) principale. Decreti che, tra le altre disposizioni, prevedono la dissoluzione delle potenti Guardie Repubblicane, la forza d’elite capeggiata dal figlio di Saleh, Ali Ahmed, e quella della Prima divisione armata del generale Ali Mohsen al-Ahmar (legato al vecchio regime e senza legami di parentela con l’omonimo clan), decisioni dà il via ad una nuova serie di scontri tra le opposte fazioni.

Hadi non si fa scrupoli nel concentrare tutto il potere nelle sue mani perché sa di avere dalla sua il sosegno di Riyad e Washington. Gli interessi strategici delle due potenze convergono da sempre nella volontà di stabilizzare lo Yemen per ragioni di sicurezza e, nei rispettivi calcoli, la transizione politica guidata dal neo presidente contribuirà a ricostruire un “equilibrio”. Espressione che, tradotta dal linguaggio della diplomazia, significa continuare a reprimere jihadisti e Houthi. Se Saleh era gradito ad americani e sauditi per la sua azione di contrasto a queste fazioni, Hadi lascia intendere di proseguire lungo la stessa direzione. Peccato che l’uso della forza, se da una parte consente ad un regime di sopravvivere nel breve periodo, dall’altra lo logora in quello medio-lungo, soprattutto se manca il necessario supporto di una seria e ponderata transizione politica.

L’auspicata transizione non si verifica perché l’assetto istituzionale non viene mai veramente riformato. Di fatto, il potere passa solo di mano dalla vecchia oligarchia tribale ed economica ancora legata al regime di Saleh e al suo Congresso Generale del Popolo all’élite vicina ad Hadi e agli islamisti di Islah (Fratelli musulmani e salafiti), che una volta al governo monopolizzano le tutte istituzioni di transizione sorte dopo la primavera araba. Con il ritorno in patria dell’ex dittatore a fine 2011, il contrasto tra vecchio e nuovo regime viene a manifestarsi apertamente.

Tutto questo mentre lo Yemen si trova già ad affrontare due gravi emergenze interne: la crescita di AQAP – che dalle regioni a sud pianifica azioni terroristiche anche all’estero, da un lato, e la ribellione armata degli Houthi a nord, dall’altro. Per quanto riguarda i jihadisti, abbiamo visto che l’attività di contrasto alle cellule di Al Qaeda ha sempre garantito il sostegno politico, militare ed economico statunitense al governo yemenita a prescindere da chi ne fosse a capo. Nel triennio 2011-14 la Casa Bianca spende una cifra pari a 250 milioni di dollari solo per operazioni di counter-terrorisme institution-building in Yemen. Quanto agli Houthi, costantemente repressi sotto il regime di Saleh, in un primo momento approfittano dello sconquasso prodotto dalla primavera araba per riorganizzarsi militarmente; in seguito, si rivelano un’inaspettata carta nelle mani dell’ex presidente.

La ribellione Houthi

Gli Houthi, fino al 2004 noti come “Ansarullah” (Partigiani di Dio), rappresentano la minoranza sciita dello Yemen, che nel Paese conta circa il 40% della popolazione. La sigla nasce nei primi anni Novanta nella regione di Sadaa, nordovest del Paese, da una variante minore dello sciismo, quella zaidita. Gli Zaiditi prendono il nome da Zayd bin Ali, pronipote di Maometto, da essi riconosciuto come quinto Imam, e sono considerati la setta sciita più vicina al sunnismo. Dal punto di vista politico, nell’893, in polemica con le varie dinastie che avevano il governo della regione arabica, fondano uno Stato che mantiene l’indipendenza fino al 1962, quando viene annesso allo Yemen del Nord. Nel 2004, l’uccisione del loro leader Hussein al-Houthi, cui succede il fratello Abdulmalik, scatenando un lungo conflitto con il governo centrale con decine di migliaia di morti e oltre 340 mila sfollati. Nel 2012 si uniscono alle forze popolari approfittando dell’instabilità ed acquistando sempre più potere militare.

Nel gennaio del 2014, la Conferenza di dialogo nazionale, formata per decidere il nuovo assetto istituzionale del Paese, approva all’unanimità la riforma del Paese in uno Stato federale unitario ma con regioni semi-autonome (quattro al Nord e due al Sud); restano tuttavia da stabilire i confini delle nuove regioni, nonché la ripartizione delle competenze fra centro e periferia. Ai Partigiani di Dio la riforma non piace, così iniziano a giocare una doppia partita: una sul piano politico, partecipando alla Conferenza con 35 delegati; l’altra sul piano militare, avanzando pian piano dal governatorato di Sadaa verso la capitale. Naturalmente la seconda è funzionale alla prima, poiché l’idea di costituire un autogoverno a Nord sempre più esteso serve ad esercitare una pressione sempre maggiore all’interno della Conferenza. A settembre i miliziani occupano gran parte della capitale Sanaa, costringendo il governo  del presidente Hadi a firmare un Accordo di Pace e di Partenariato Nazionale sotto la supervisione degli osservatori ONU, ma nemmeno questo basta a fermare le ostilità. In gennaio i ribelli entrano nella capitale e martedì 20, dopo due giorni di combattimenti espugnano il palazzo presidenziale, costringendo governo e presidente a ripiegare su Aden.

Americani, qatarini e sauditi

Facciamo un passo indietro. Visto da fuori, lo Yemen è una pedina nella più ampia partita tra le due grandi potenze regionali (Arabia Saudita e Iran) a cui partecipano anche gli Stati Uniti.

Come nota Limes nel 2013, lo Yemen pur non avendo una politica estera si ritrova al centro di quella di molti Stati, a cominciare agli USA. I quali negli anni del dopo Saleh esercitano sul Paese una sorta di amministrazione fiduciaria per il tramite del loro ambasciatore a Sanaa, Gerald Feierstein, definito il “nuovo dittatore” dello Yemen. Ma la presenza americana da queste partisi dispiega anche e soprattutto sul piano militare per mezzo dei famigerati droni.

In alcune occasioni il presidente Obama fa una timida ammissione, pur cercando di minimizzarne la portata, in merito alla vera e propria guerra ombra condotta con gli UAV (aerei senza pilota) contro le cellule di al-Qa’ida, temendo che la cronica debolezza del governo possa rafforzare i gruppi estremisti. Invece la mano (nient’affatto) invisibile dell’America, lungi dal risolvere il problema della sicurezza interna, al cntrario contribuisce ad esasperare la polarizzazione politica e sociale, se pensiamo che, ad oggi, le vittime civili delle operazioni aeree (segrete) di Washington ammontano al doppio di quelle provocate dalle operazioni militari non segrete.

Ad essere preoccupati dal caos che regna all’interno del territorio yemenita, però, non sono solo gli USA. Una massiccia dose di inquietudine proviene anche dall’Arabia Saudita, che per anni era riuscita a tenere a bada proprio la rivalità tra gli al-Ahmar e i Saleh. Non a caso Riyad si prodiga ripetutamente dal punto di vista diplomatico per indurre il Consiglio di Cooperazione del Golfo a proporsi come mediatore, senza troppo successo.

I sauditi sono impegnati su due fronti. Il primo è con l’Iran, principale finanziatore degli Houthi e contro cui i Sa’ud combattono una velata guerra per procura in questo angolo della regione. Negli ultimi tredici secoli non è mai trascorsa una generazione senza che lo Yemen fosse infiammato da una guerra civile e quella tra Houthi e governo centrale, come abbiamo visto, perdura ormai da undici anni. Eppure in precedenza le iniziative dei ribelli si sono sempre esaurite dopo qualche tempo; stavolta, invece, in meno di sei mesi il gruppo riescono a prendere possesso della capitale, di quasi tutte le grandi città e di gran parte dell’entroterra agricolo. Ciò non sarebbe stato possibile, oltre che al decisivo sostegno dell’Iran, senza un’alleanza di comodo con l’ex nemico Saleh, oggi al fianco degli Houthi in funzione anti Hadi. Per Riyad, la prospettiva di dover condividere la propria frontiera meridionale con una regione autonoma a maggioranza sciita è un rischio assolutamente da evitare. Temendo un ”accerchiamento” sciita, l’Arabia comincia a vedere complotti sciiti ovunque, compreso in Yemen. Da qui la recente decisione di mettersi alla testa dell’operazione “Tempesta decisiva” con altri dieci Paesi sunniti per bombardare le postazioni Houthi.

Il secondo fronte che interessa Riyad è con il vicino Qatar, che anche qui ingaggia con il proprio Grande vicino una competizione finanziaria e politica intrasunnita per massimizzare la propria influenza nel mondo arabo. Nel 2013, il Qatar cerca di creare proprio in Yemen un’unità paramilitare ben addestrata e ben armata da inviare a combattere in Siria. I decreti firmati da Hadi sarebbero funzionali a questo tentativo, e presto sui giornali locali comincia a circolare la voce di un “serbatoio” di circa 10.000 soldati yemeniti al quale l’emirato cerca di attingere – una base composta non solo dai soldati ammutinati, ma anche dalle Guardie di Ali Ahmed e dalla Divisione di Ali Ahmar – da inviare in Siria al fianco dei ribelli in lotta contro il regime di Assad.

“L’altra Libia”

La situazione in Yemen è ancora lontana dalla normalizzazione. Ad oggi la lotta interna per il potere si sovrappone alle dinamiche del contesto internazionale in cui l’unica repubblica della penisola araba è inserita. Gran parte della politica interna yemenita dipende infatti dalle mosse delle altre potenze regionali, ossia Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Iran, che sono i veri attori della politica estera di Sanaa.

Oggi nel Paese abbiamo due governi (uno appoggiato da Saleh e l’altro presieduto da Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale), due capitali (Sanaa e Aden) e due milizie contrapposte. C’è chi ha definito il Paese “l’altra Libia”, in perfetta analogia con quanto accade a Tripoli, con la differenza che qui, sullo sfondo, al posto dello Stato Islamico c’è ancora la vecchia Al Qaeda, pronta a trarre beneficio dalla lotta tra i tanti, troppi contendenti.

Riassumendo, quanto accaduto negli ultimi quattro anni in Yemen comporta due conclusioni: l’inefficacia della pluridecennale strategia di securitization statunitense e l’incapacità della rivolta anti Saleh del 2011 di trasformarsi in autentica rivoluzione. Tutto ciò in un Paese che occupa il 154esimo nella Indice Onu sullo Sviluppo Umano dove più di metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.


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