di Giuseppe Dentice
Lo scorso 22 aprile il Consiglio Consultivo della Shura, la Camera bassa del Parlamento saudita, avrebbe raccomandato al Governo la decisione di spostare le date corrispondenti al fine settimana, facendole passare dal giovedì e venerdì al venerdì e sabato, con l’intento di “guadagnare” un giorno lavorativo. Secondo le prime ricostruzioni della stampa araba, la proposta sarebbe nata su iniziativa di alcuni imprenditori ed economisti locali i quali, sulla base di alcune statistiche di rendimento nazionale, hanno notato come l’attuale struttura della settimana, e dunque il fatto di condividere con i Paesi occidentali solo tre giorni lavorativi, provocherebbe ricadute negative sull’economia per oltre un miliardo di dollari l’anno. La proposta di operare questa sorta di nuova calendarizzazione riguarda ad ogni modo solo il settore pubblico, visto che la quasi totalità delle grandi aziende private saudite hanno adeguato i propri standard al “modello occidentale”.
Tra tutti i Paesi islamici solo Yemen e Afghanistan, oltre all’Arabia Saudita, hanno il giovedì e il venerdì come giorni conclusivi della settimana. Anche l’Oman, altra corona islamica del Golfo, ha recentemente cambiato (lo scorso 1 maggio) i propri giorni festivi passando definitivamente al venerdì-sabato. In realtà, il weekend all’“occidentale” esiste da tempo in diversi Paesi musulmani come Indonesia, Libano, Pakistan, Tunisia, Marocco e Turchia; gli altri, tra cui Egitto, Malesia e Bangladesh hanno introdotto – dopo un’iniziale ritorno al giovedì è venerdì – il nuovo sistema solo dagli anni 2000 per le stesse ragioni di opportunità politico-economica, al fine settimana di venerdì e sabato.
L’ipotesi dello slittamento del weekend non è tuttavia una novità assoluta per Ryadh: un’analoga proposta fu presa in considerazione, e poi scartata, nel 2007 anche e soprattutto a causa dell’intransigenza del clero saudita che vedeva in questa variazione una distrazione per il buon musulmano dalla fedeltà dei precetti islamici (Corano e Sunnah) che sono parte integrante della Costituzione. Altri Ulema ancora più conservatori si erano opposti all’ipotesi adducendo motivazioni di tipo culturale-religioso politico poiché ciò vorrebbe dire osservare lo stesso fine settimana degli Ebrei, il cui Sabbath dura dal venerdì sera al sabato sera, oltre che muovere un deciso passo verso l’introduzione di una domenica festiva, come osservata invece dai Cristiani.
Ma il dibattito sulla modifica dei giorni lavorativi/festivi rientra in un quadro più ampio che va oltre il semplice fattore religioso o di ammodernamento della società saudita e che si inscrive all’interno di due contesti ben precisi e che coinvolgono l’intera architettura economica nazionale: riforma del mercato lavoro e possibilità di diversificare e rilanciare l’economia ancora troppo dipendente dal petrolio (il quale incide per il 52% del PIL). L’eccessiva dipendenza dagli idrocarburi è un’arma a doppio taglio per la corona saudita in quanto una domanda petrolifera inferiore ai 100 dollari costringerebbe il Governo a dover rivedere la spesa pubblica e le politiche di welfare con gravi ricadute anche a livello sociale.
Oltre all’ancora bassa diversificazione economica, le attuali fragilità del sistema sono da addebitare a fattori molteplici quali la quasi totale esclusione delle donne dall’attività lavorativa, la forte disoccupazione (10,7%) – in particolare quella giovanile è attestata al 28,2% –, una massiccia immigrazione (circa un quinto della popolazione totale), anche clandestina, da Yemen, Giordania, Egitto e Pakistan e le politiche di “saudization” connesse al fenomeno migratorio. Questa politica, che vincola le imprese ad assumere cittadini sauditi in percentuali tra il 10% e il 30%, a seconda delle dimensioni dell`azienda e del settore di riferimento, é necessaria in quanto assente nel Paese una manodopera non qualificata e a basso costo. Tutti fattori che incidono negativamente sullo sviluppo economico nazionale.
Per affrontare queste criticità e prevenire possibili folate rivoluzionarie, Re Abdullah bin Adul-Aziz bin Saud nel 2011 non solo aveva immesso nel mercato interno un pacchetto di aiuti finanziari del valore di 130 mld $, ma aveva anche promesso riforme in senso sociale e di welfare che avrebbero dovuto spegnere il fervore popolare e rilanciare contestualmente l’economia. Tuttavia le concessioni finora adottate sono state modeste e più simili ad uno specchietto per le allodole.
Vi sono infine fattori socio-politici che spiegano la necessità di intervento più immediato da parte della Corona: la costante violazione dei diritti umani nei confronti di intellettuali, accademici, attivisti e minoranze sciite contribuiscono a frenare lo sviluppo, anche democratico, del Paese. In particolare, le tensioni e le violenze contro le comunità sciite (15%) – prevalentemente concentrate nell’Eastern Province e nel governatorato del Qatif (area peraltro ricca di giacimenti petroliferi) – da anni sottoposte a una dura discriminazione in tutti i rami della vita pubblica nazionale, possono essere un grave detonatore sociale destabilizzante anche a livello politico regionale. Infatti, gli sciiti del Qatif sono sospettati dai Saud di essere degli “agenti iraniani” infiltrati in territorio saudita. Ma le spinte verso la democrazia e la modernità giungono, come detto, anche da attivisti dei diritti umani e da una borghesia giovane e dinamica poco propensa ad accettare le regole di una società fortemente “conservatrice” e rigidamente forgiata sui precetti del wahhabismo. Proprio questa spaccatura generazionale si riflette anche nella famiglia reale, dove i Principi più anziani sono spesso in contrasto con i più giovani che vorrebbero un cambiamento più netto e rapido, intuendo il pericolo insito nelle proteste popolari che hanno toccato i Paesi vicini e la stessa Arabia Saudita.
Sebbene le sfide poste dalla modernità siano tante e difficili, l’Arabia Saudita sta lentamente provando ad aprirsi al mondo cercando di raggiungere una perfetta sintesi tra tradizione e modernità. E sebbene la scelta di spostare il weekend possa sembrare una banalità, la strada intrapresa da Riyadh è l’unica direzione possibile per garantire al gigante del Golfo uno sviluppo culturale ed economico altamente competitivo non solo con gli altri attori regionali (ad iniziare dagli Emirati Arabi Uniti e Qatar), ma anche con quelli internazionali che, alla luce anche dell’attuale ridefinizione dei modelli energetici globali, potrebbero perdere interesse nei confronti di un Paese che, almeno fino ad oggi, ha largamente condizionato l’economia mondiale.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
Quest’articolo è stato scritto anche per Linkiesta e, come tale, potrà apparire sul relativo sito.
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