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Archeologia del patriarcato – Capitolo 2

Da Femminileplurale

Per una critica femminista alla legge sul divorzio

Archeologia del patriarcato – Capitolo 2E così, sempre a Paestum, ci hanno detto che, come l’aborto, neppure il divorzio è ascrivibile alle vittorie del femminismo. «Furono i socialisti a volere la legge! Queste cose non potete non saperle!» ci ammoniscono, giustamente, le stesse donne .

E infatti, se invece di googlare “divorzio/vittoria femminismo”, cerchiamo “divorzio/socialisti”, incappiamo subito nel nome del deputato socialista Loris Fortuna, che ha sostenuto e vinto la battaglia conclusasi con la cosiddetta legge Fortuna-Basili sulla “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, che verrà approvata nel dicembre del 1970 (n.898 del 1970).
Per chi volesse approfondire la Figura di Fortuna alleghiamo degli appunti [1] scaricabili dal sito dei Radicali  sulla battaglia dei socialisti italiani in favore del divorzio, combattuta per l’appunto a fianco dei radicali della Lid (Lega italiana per il divorzio).

Di femminismo negli anni della legge sul divorzio prima e sull’aborto poi, ne abbiamo parlato per ore con Maria Luisa Gizzio della Casa internazionale delle donne di Roma, strette nella sua Micro che ci riportava verso la Capitale. Anche da lei abbiamo avuto solo conferme rispetto alle nostre lacune, scoperchiate dalla plenaria di Paestum. «La fa-mi-glia è un re-ato l’ha inven-ta-ta il pa-triar-ca-to» scandisce Luisa: «Ė questo, è questo che andavamo gridando in quegli anni, capite?». Chiedere una legge per poter divorziare insomma, sarebbe equivalso a riconoscere la famiglia come istituzione, invece che come reato.

Sempre su questo tema, dal sito “Femminismo: gli anni ruggenti” è scaricabile  un documento molto interessante “Alcune note sul divorzio – Esposizione delle ragioni per dire SÌ al divorzio da parte delle donne”, che alleghiamo [2] per chi avesse voglia di leggerlo. Si tratta di un documento redatto dal gruppo di Lotta Femminista di Padova nel 1974 dove si elencano, punto per punto, le motivazioni per votare no al referendum abrogativo che quell’anno chiedeva ai cittadini e alle cittadine italiane se avessero voluto abrogare o meno la legge n. 898 del 1970.

Un piccolo inciso: il Centro Progetti Donna, nel saggio “I partiti e il movimento femminista”, collega la genesi di quel referendum alla logica del compromesso fra i partiti, sottesa all’approvazione della legge sul divorzio di quattro anni prima: nel 1970 infatti, solo dopo che la sinistra aveva votato per l’approvazione della legge sull’attuazione dei “referendum” costituzionali (n. 352/1970), la Dc aveva sostenuto l’approvazione della n.898: «…il referendum – si legge nel saggio – è stato la contropartita data alla Dc perché sul divorzio non si determinasse in Parlamento tra le forze politiche una rottura».

Abbiamo voluto fare questo inciso perché nelle note delle femministe padovane

Archeologia del patriarcato – Capitolo 2

Interesni Kazki

l’imposizione del referendum viene definita esattamente una «prova di forza della Dc» sia sotto un profilo più generale (nel suo tentativo di porsi come «partito di stato» in grado di fare gli interessi del «patronato italiano e internazionale che conta»), sia sotto un profilo più particolare come partito votato alla restaurazione e al rafforzamento della struttura familiare (la lotta femminista in questo caso si scaglia contro la volontà di “murare” le donne nelle case, attraverso la negata autonomia economica, disincentivata dalla mancanza dei servizi, dall’offerta dell’occupazione part-time e dalla gratuità del lavoro casalingo come fatto comunemente accettato). Il NO all’abrogazione della legge sul divorzio assume quindi il significato di una ribellione a questo stato di cose.

Nella seconda parte inoltre – la più interessante nell’ottica del post che stiamo scrivendo -, il documento di Lotta femminista, dà spazio a una «critica femminista alla legge sul divorzio» per la quale «è necessario partire dalla condizioni materiali di sfruttamento della donna, per capire se e fino a che punto il divorzio incida su di essa». Per le donne, si denuncia, una volta ottenuto il divorzio, l’unica prospettiva economica è dipendere dagli alimenti (incerti) dell’ex marito. Per la donna rimasta sola con i figli e che spesso fa i conti con una minor disponibilità di denaro rispetto al passato, la vita diventa molto più faticosa, in una casa che la “inghiotte” sempre più, giorno dopo giorno, togliendole quei pochi svaghi che almeno prima aveva. Il tutto in un contesto sociale di emarginazione e isolamento. Anche nel caso in cui gli alimenti dovessero arrivare puntuali – affermano però le femministe -, altro non sarebbero che il perpetuarsi della dipendenza della donna dall’uomo, dipendenza ancor più grave nella misura in cui continua anche fuori dal matrimonio e si realizza nei confronti di un uomo col quale si è deciso di recidere i legami.

Abbiamo citato queste parole scritte quasi cinque anni dopo l’approvazione della legge sull’aborto perché, nonostante siano contenute in un documento che sostiene l’importanza di un tale provvedimento di fronte al rischio di una sua abrogazione, ci restituiscono degli importanti spunti di riflessione circa le critiche femministe alla legge sul divorzio, delle quali non eravamo consapevoli a sufficienza, come giustamente ci è stato fatto notare a Paestum.


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