Serata di quelle da segnare con il circoletto rosso, come diceva un tempo nelle sue telecronache Rino Tommasi per sottolineare i colpi più spettacolari del tennista di turno, quella regalata agli spettatori del Dehon da Guido Ferrarini e dalla sua compagnia con una “nuova” versione de “Il malato immaginario”, il capolavoro che Molière scrisse nel 1673, ultimo anno della sua esistenza terrena. Un vero “evergreen” che il regista bolognese replica da oltre un ventennio, offrendo al suo pubblico una lettura “moderna” di un testo le cui tematiche risultano ancor oggi assai attuali, intrise come sono di profondo realismo. L’Argante di oggi, magnificamente reso da Ferrarini, come quello impersonato allora dallo stesso Molière, si presenta infatti come un tipico personaggio farsesco, che a tratti riesce anche a fare affermazioni lucide e ragionevoli, ma mostrando sempre quel cinismo e quella disillusione che tradiscono le amare riflessioni dello stesso autore, che approfitta delle occasioni comiche offerte dalla trama per introdurre in modo inaspettato un’aspra denuncia della società a lui contemporanea. L’Argante che Ferrarini, dall’alto della sua grande bravura, ci regala è una figura complessa, contraddittoria: un po’ vigliacco, un po’ eroe, un po’ adulto, un po’ infante, è incapace di accettarsi ed accettare la sua condizione di essere umano, e come tale soggetto alle forze della natura e, quindi, anche alla malattia. Sballottato da più parti, oggetto com’è delle oscure trame di una seconda moglie fedifraga ed interessata solo all’eredità e delle legittime aspirazioni di una figlia assennata ed innamorata, è però soprattutto schiavo di dottori e farmacisti, che ne fanno un pusillanime incapace di vivere normalmente come qualsivoglia altro cristiano.
Argante finisce per trovare il massimo della propria intelligenza e del coraggio proprio quando tocca il grado più basso della sua vergogna: solo in quel momento difatti, e grazie all’arguzia e furbizia della serva tuttofare, astuta e scaltra, Antonia e del savio fratello Beraldo, troverà quell’afflato di ribellione che, più forte dei timori, lo porterà a riaffermare la sua piena e cosciente umanità e fallibilità. Il finale con Argante che riceve la laurea “honoris causa” è la degna ed “inevitabile” conclusione di un testo che ci diverte dal primo all’ultimo istante, che mai annoia, ma che risponde pienamente a quelle elementari regole del teatro che sono: stupire, divertire, far riflettere. Accurata ed esemplare la ricostruzione scenica, la commedia trova la sua sublimazione nell’interpretazione attenta, sentita e partecipata di tutti gli attori che riescono a creare con gli spettatori il feeling necessario a creare quella simbiosi che assicura il successo dello spettacolo ed il gradimento del pubblico. Dopo gli scroscianti a calorosi applausi il buon Ferrarini si concede il sempre apprezzato quarto d’ora di dialogo con i presenti in sala, un confronto stimolante che fa davvero sentire il teatro qualcosa di vivo e reale.