Ovvero come prepararsi alla mostra “La ragazza con l’orecchino di perla” nel tempo di un viaggio Torino-Bologna (sul Frecciarossa).
Se ne è parlato parecchio, di questa nuova mostra-blockbuster allestita a Bologna dal solito Marco Goldin (chi si ricorda “Gli impressionisti e la neve” durante le Olimpiadi Torino 2006? Io si, perché ci lavoravo come addetta alle audioguide).
Così, data anche la provvidenziale presenza di amica bolognese, ne ho approfittato per un week-end “d’arte”. Dal momento che il Seicento Olandese non è proprio il mio pezzo forte, mi sono documentata in treno. E voglio condividere con voi quello che ho imparato, in pillole, nonchè le mie impressioni sulla visita.
Chi era e cosa faceva Vermeer
Generalmente presentato come un rispettabile e operoso borghese di Delft (per quanto la storia della sua famiglia sia costellata da qualche innocente truffa) la pittura gli dava letteralmente il pane: infatti scambiò 2 quadri in cambio della fornitura necessaria a sfamare la sua famiglia per un po’. E non era poco, il pane necessario, visto che aveva ben 10 figli.
Di cosa parliamo quando parliamo di Vermeer
Riconosciuto come pittore della luce e del colore, aveva una fissa per i personaggi femminili in interni: sfogliando il catalogo delle sue opere (una trentina in totale), è tutto un susseguirsi di signore che ricevono/leggono/scrivono lettere, fanciulle che suonano la spinetta (?), solide cameriere che mettono in tavola pane e latte. Attenzione, però, non si tratta solo di quieti interni borghesi, perché pare che dietro molte opere si celino messaggi e insegnamenti morali, grazie a un sistema simbolico codificato ben noto agli osservatori del tempo (ad esempio, strumento musicale=passione amorosa).
Ad ogni modo, Vermeer non se l’è c*** nessuno per un bel po’ di secoli, e se oggi è annoverato tra i classici lo si deve anche al buon Marcel Proust in persona, che definì la Veduta di Delft “il più bel quadro al mondo” e ha citato più volte il pittore olandese nella Recherche, arrivando addrittura a far morire un personaggio davanti a una sua opera.
L’introduzione, nel libro su Vermeer che ho letto in treno, è di Ungaretti. Per dire. Uno che scrive robe così:
Lo dicono il pittore della luce. Dicono che cercasse la luce. Difatti cercava la luce. Si vede com’essa vibri, per lui, dai vetri, com’essa muova l’ombra, ombra della luce, ombra quasi impalpabile di ciglia mentre lo sguardo amato si socchiude, sguardo quasi – nel suo protrarsi nella memoria e nel desiderio – imitasse la luce. Forse, cercando la luce, Vermeer trovava altro, forse la meraviglia sublime della sua pittura è nell’aver trovato altro. Tanti pittori hanno cercato di fermare la luce.
Ma Vermeer ha trovato il colore. Dice Ungaretti.
La ragazza con l’orecchino di perla
Il quadro in questione, che vedrete riprodotto fino alla nausea in ogni bar/ristorante/negozio di Bologna in questi mesi, si chiamava in realtà “Ragazza con turbante” (staccato). Poi è arrivato il libro di Tracy Chevalier, poi il film tratto dal libro, con Scarlett Johnasson con turbante, e così un quadro che aveva lo stesso nome da quei 300 anni e rotti è diventato ufficialmente “La ragazza con l’orecchino di perla”.
Quel furbone di Goldin ha dichiarato che sì, può essere che la gente accorra numerosa per via del film, ma che ci può fare lui, anche questa è cultura no? (non ha detto proprio così, ma il concetto è quello).
Sta di fatto che quel quadro stupendo lo è davvero, non si può dire di no: sono 44×39 centimetri di pura magia, di trionfo della luce, quella ragazza che emerge dal buio pare essersi voltata un secondo fa, per guardare proprio noi. Da 300 anni. Enigmatica come una Gioconda del Nord.
Chi è la ragazza con l’orecchino di perla, davvero? Non si sa. Non è un ritratto, è un tronie.
Non vi sto prendendo in giro: dicesi tronie un quadro che non ritrae una persona specifica, ma una tipologia di personaggio, motivo per cui spesso i tronie sono vestiti in modi assurdi (leggi: turbante alla moda turca).
Le altre opere in mostra a Bologna
Di Vermeer c’è ben poco d’altro: “Diana e le sue ninfe”, che non è esattamente uno dei quadri più rappresentativi del pittore (niente quieta intimità domestica, per intenderci) e stop. Però c’è un po’ di Rembrandt, con un paio di interessanti ritratti, e alcune nature morte. Insomma, ammettiamolo, è una mostra costruita intorno a un’icona. Una bella icona, però.
Il mito della Golden Age da Vermeer a Rembrandt
Palazzo Fava, Bologna,
fino al 25 maggio